Celan, Heidegger, Todtnauberg, Parmenide

Celan, Heidegger, Todtnauberg, Parmenide

Celan, Heidegger, Todtnauberg, Parmenide

 

Celan, Heidegger, Todtnauberg, Parmenide

Meccanismi, credit Mary Blindflowers©

Angelo Giubileo©

Celan, Heidegger, Todtnauberg, Parmenide

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Si narra che il poeta Paul Celan, dopo essere scampato all’eccidio di Auschwitz e al termine di un lungo dissidio interiore vissuto con se stesso, abbia deciso e quindi voluto incontrare Martin Heidegger – forse il maggiore filosofo del Novecento, ma con un trascorso di certo nazista, rispetto al quale egli stesso, si dice comunemente, non avesse e non abbia mai espresso alcun giudizio di ferma condanna o pentimento – nella baita in cui il filosofo dimorava a Todtnauberg nella Foresta Nera.

In ricordo dell’evento, il poeta scrisse una poesia, pubblicata pochi mesi dopo la sua morte. Il testo della poesia sembra alludere alla speranza di una parola che, in merito a quanto orridamente accaduto, il filosofo non avrebbe pronunciato. Mai.

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TODTNAUBERG (da Lichtzwang , 1970)

Arnika, Augentrost, der
Trunk aus dem Brunnen mit dem
Sternwürfel drauf,

in der
Hütte,

die in das Buch
– wessen Namen nahms auf
vor dem meinen? –
die in dies Buch
geschriebene Zeile von
einer Hoffnung, heute,
auf eines Denkenden
kommendes
Wort
im Herzen,

Waldwasen, uneingeebnet,
Orchis und Orchis, einzeln,

Krudes, später, im Fahren
deutlich,

der uns fährt, der Mensch,
der’s mit anhört,

die halbbeschrittenen
Knüppelpfade
im Hochmoor,

Feuchtes,
viel.

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Per chi conosce esattamente il tedesco, assolutamente non io (!), ogni traduzione potrebbe anche non bastare. A mio parere e in modo appropriato rispetto all’evento complessivo di cui qui si discute, ritengo infatti che dovremmo piuttosto tenere conto di quanto, tradotto, il filosofo consigliava agli studenti – in generale e in particolare sul pensiero di Parmenide e dei presocratici – durante il corso universitario tenuto a Friburgo nel semestre invernale 1942/43: Per sapere che cosa è detto e pensato nelle parole di Parmenide, scegliamo la via più sicura, seguiamo il testo. La traduzione allegata ne contiene già l’interpretazione. Tale interpretazione ha bisogno tuttavia di una delucidazione. Eppure, né la traduzione né la delucidazione hanno un peso fintanto che ciò che è pensato nella parola di Parmenide non ci tocca direttamente (Adelphi, seconda ed. 2005). Per inciso (?!), l’incontro tra il poeta e il filosofo è avvenuto il giorno dopo che il poeta aveva accettato l’invito a un convegno, presente Heidegger, svoltosi proprio a Friburgo.

E dunque, sembra che la speranza del poeta legata alla manifestazione di una parola chiarificatrice – o piuttosto esplicativa riguardo al perché il filosofo avesse percorso quella “via”, che in qualche modo avrebbe comunque avrebbe portato, come in effetti portò, ad Auschwitz – finisca apparentemente con l’infrangersi contro il muro del silenzio eretto e mantenuto a distanza di decenni, dalla tragica adesione in qualità di rettore dell’Università di Friburgo (1933) al nazionalsocialismo di Hitler, dal filosofo. Ma, solo apparentemente. E oserei, se mi è concesso, proprio perché il filosofo aveva in effetti compreso forse già lucidamente il pensiero dell’Eleate, così come appare dottrinalmente esposto nel corso del semestre invernale del 1942.

E’ possibile che, e naturalmente mi piace pensarlo, che Heidegger abbia acquisito, in via definitiva la lezione di Parmenide. In particolare – assumendo personalmente a sostegno la traduzione dal greco di Giovanni Cerri – Parmenide aveva precisato, al frammento 9, in via di principio o, come direbbe Heidegger, secondo “il pensiero dell’inizio”, che: Dato che tutte le cose si chiamano tenebra e luce, ciascuna secondo efficacia di queste sull’una o sull’altra … E quindi: la conclusione di ogni discorso sull’<essere> non è e non può essere che la stessa già anticipata in precedenza al frammento 7/8 e lucidamente riassunta in una sola parola; direi quella stessa parola che a Todtnauberg tra il poeta e il filosofo si dice, almeno comunemente, sia mancata: Allora di via resta soltanto una parola, che <è>.

Dopo l’evento di Auschwitz – che il poeta e il filosofo avevano entrambi vissuto, naturalmente e come sappiamo in modo assai diverso – tenebra e luce, come sempre e quindi perennemente, avrebbero continuato a esercitare la loro reciproca potenza – definita dal “pensatore iniziale” di Elea come notte cieca al contrario, forma densa e pesante (frammento 7/8, vv. 58-64) – su tutte le cose e ciascuna secondo efficacia di queste sull’una o sull’altra. Così che il poeta decise nel 1970 di porre fine alla sua dimora terrena, suicidandosi e gettandosi nella Senna. Quasi tre anni dopo la visita alla dimora del filosofo, che aveva viceversa scelto di rifugiarsi nella Foresta Nera, all’interno della dimora di Todtnauberg, il cui nome si dice comunemente che stia per “prato dei morti”.

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Rivista Il Destrutturalismo

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