Silenzio assenso, arte, business

Silenzio assenso, arte, business

Silenzio assenso, arte, business

Silenzio assenso, arte, business

La trappola, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers & Angelo Giubileo©

Silenzio assenso, arte, business

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Crediamo, in un modo o nell’altro, che il nostro mondo attuale viva mediante la tradizione del linguaggio, anch’esso di derivazione e quindi a sua volta tramandato ed ereditato, di quella che comunemente indichiamo come “l’antica civiltà greca”.
Crediamo anche che essa abbia posto le proprie basi, e quindi abbia eretto la propria struttura, facendo perno e leva sul concetto di logos inteso come “parola” o “verbo” (traslitterazione latina del termine greco), a cui avrebbe attinto lo stesso Giovanni redigendo il testo che è noto, in particolare ai cattolici-apostolici-romani, come “il quarto evangelo”.
Crediamo, ma non è così; perché il termine logos sta a indicare in origine il “discorso” (sulla natura delle cose), che è fatto di pensieri, parole, opere e omissioni come recita il testo del Confiteor. E quindi, comprese le parole stesse, tutto ciò che può essere effetto, divenire di una causa o – direbbe magnificamente Plutarco – di un “impulso” naturale.
In una logica (attività discorsiva) sviluppata mediante due valori di riferimento, potremmo quindi dire che: la “parola” oppone e contrasta il “silenzio” e così viceversa. Questo sistema di due valori contrapposti è lo strumento (Organon) su cui è basata e di cui si serve la logica aristotelica, preludio allo sviluppo della dialettica hegeliana servo-padrone. Il dire e il non-dire – così come, somma distinzione, l’essere e il non-essere – agiscono nell’ambito di un discorso che diventa così strutturato.
Il testo del Poema sulla natura di Parmenide, giunto a noi parzialmente in forma di frammenti, è comunemente suddiviso e interpretato in due parti separate. Una totale sciocchezza. E comunque, secondo la critica (maggiormente accreditata, da chi non importa?!), la prima parte, inerente alla cosiddetta “via della verità”, termina con la dicitura: Posero duplice forma a dar nome alle loro impressioni: d’una non c’era bisogno, in questo si sono ingannati … La seconda parte, inerente alla cosiddetta “via dell’opinione” si apre con la dicitura: Dato che tutte le cose si chiamano tenebra e luce…
In breve, Parmenide – come tutti “i nostri più antichi progenitori”, così li chiama Aristotele nella Metafisica – dice che di fronte alla natura delle cose l’umano non può che restare in silenzio, sospendere il giudizio (epochè), dato che – oltre che il-logico, secondo i canoni del corretto discorso anche di tipo aristotelico – ogni giudizio presunto non può essere manifestato con <verità e certezza>, ogni parola o termine, che secondo il comune buon senso dei subnullisti si presume identificativo, non può che essere privo di “assenso” (cfr. Plutarco, adversus Colotem). E quindi non ci sarebbe niente di meglio che il silenzio.
Silenzio che presiede a ogni rito di dipartita, e in particolare trova una delle sue massime espressioni nei riti commemorativi in onore del milite – tutti noi lo siamo in questo mondo – ignoto.
E tuttavia, questa stessa forma di linguaggio, il silenzio – in un sistema costruito su due valori di riferimento – può assumere anche un significato di opposizione e contrasto rispetto a tutti coloro che invece praticano un rito alternativo, esplicitato da un segno esteriore di consenso, acclamazione, fino alla totale “sottomissione” (di cui in modo assai particolare ha scritto anche Michel Houellebecq nel suo libro omonimo). Di fronte a questi atti di “assenso”, il silenzio – nell’ambito di un mondo che si dice classico e che tuttavia sembra aver dimenticato la lezione <umana, immutata e immutabile> dei nostri più antichi progenitori – è destinato a rappresentare e quindi a essere inteso anche come un segno o forma esteriore di ribellione.
E invece, siamo costretti a parlare anche male del silenzio, quel silenzio colpevole perché inteso come assenso. Lo spaventoso silenzio delle persone buone di cui parlava Martin Luther King, ormai si è radicato capillarmente dentro i gangli della società. Perfino sui social ci sono particolari regole non scritte in merito al silenzio osservabile e auspicabile, adatto alle varie circostanze. Il guarda e passa dantesco, estrapolato e depauperato di senso diviene la polpetta con cui le masse si auto-censurano e gestiscono i rapporti umani virtuali, riflesso ipocondriaco e iperteso dei rapporti reali. Quel non dire costante, specie se si tratta di amici, è il silenzio dei buoni, di coloro i quali per quieto vivere non si interessano che dei bottoni lucenti delle giacche o dei fiori della vicina, senza valutare i risvolti e le vie che hanno portato all’acquisto di quei preziosi ornamenti. La via che conduce attiene ad un mondo sotterraneo che non riguarda l’uomo auto-definito medio, il quale preferisce definire i contorni del proprio fallimento piuttosto che allungare uno sguardo critico sul mondo. Prima o poi se sei bravo, arrivi, continua a ripetere a se stesso, il buon uomo saggio, e se non arrivi da nessuna parte, vuole semplicemente dire che non sei bravo, che non sono bravo, sono la volpe all’uva, però sono talmente buono da vedere il mondo semplice come uno specchio d’acqua di fiume che non è increspata da nessuna onda anomala proveniente dall’Oceano. Del resto se il fiume va a finire nell’Oceano, la verità non è forse un circolo chiuso?
E le domande che implicano già una risposta e la suggeriscono o i discorsi che pattinano soltanto sugli effetti e non sulle cause, non sono forse silenzi ed omissioni colpevoli?
Ancora c’è gente che si chiede come si faccia a non capire che l’arte concettuale di Duchamp sia una vera rivoluzione culturale. C’è gente che suggerisce una risposta indotta da un sistema che omette o finge di ignorare quali sono i reali meccanismi su cui si fonda l’arte contemporanea e di fronte a persone pensanti che dicono “potevo farlo pure io, chiunque può farlo” si scandalizza e chiede retoricamente: “perché non lo hai fatto?” Questa è una delle domande più inutili e allineate al sistema che si possano partorire, perché ignora che se un signor Chiunque avesse pensato di chiamare un cesso arte, senza avere soldi o agganci per esporre in gallerie importanti, tutti gli avrebbero riso dietro. La domanda, tendenziosa e stupida, finge di non sapere che per esporre in gallerie che contano, quelle dove vanno i critici che poi ti fanno diventare famoso, occorrono tanti soldi, perché le gallerie importanti sono tutte a pagamento, esattamente come le famose e tanto decantate biennali a cui molti si vantano di partecipare. L’arte concettuale che non crea nulla, per questo motivo non è arte, è soltanto un business. Chi la fa è un uomo d’affari che ha soldi per investire su se stesso e spacciare un’idea balorda che può avere veramente chiunque, dato che non c’è creazione alcuna, per grande rivoluzione che ovviamente non rivoluziona mai nulla, anzi… La differenza infatti non è data dall’idea in se stessa ma da quanti soldi si investono per farla sembrare arte e per convincere la critica che lo sia veramente. Col potere dei soldi tutto diventa arte anche una mosca morta appiccicata su una tela, anche il nulla certificato e venduto a caro prezzo.
Il mondo ruota attorno al denaro e al silenzio assenso complice che omette costantemente l’importanza dei mezzi finanziari e si sottomette totalmente al sistema.

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