Linguaggio, mentalità, cultura, struttura

Linguaggio, mentalità, cultura, struttura

Linguaggio, mentalità, cultura, struttura

Linguaggio, mentalità, cultura, struttura

Il pensatore, credit Mary Blindflowers©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Linguaggio, mentalità, cultura, struttura

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Cos’è la mentalità?

mentalità s. f. [der. di mentale]. – Modo particolare di concepire, intendere, sentire, giudicare le cose, ritenuto proprio di un individuo, di un gruppo sociale, o addirittura di un popolo (Treccani).

Cos’è la lingua?

è il sistema o forma storicamente determinata attraverso il quale gli appartenenti a una comunità si esprimono e comunicano tra loro attraverso l’uso di un determinato linguaggio ovvero un insieme di segni scritti (simboli) e/o parlati (suoni). (Le Garzantine).

Due concetti semplicissimi.
Perché allora è così difficile capire che la lingua riflette la mentalità e non il contrario? Non è la lingua a influenzare la mentalità di un popolo, ma la mentalità che produce la lingua e la modifica, la trasforma a seconda delle sue esigenze.
Immaginiamo ora di stare dentro una sala riunioni dove ci sono 100 donne e un uomo e di sentire l’oratore dire: Benvenuti cari amici, anziché Benvenute care amiche. Il fatto che l’oratore usi il plurale maschile riflette la mentalità misogina di un popolo in cui le donne sono state discriminate in passato e lo sono ancora oggi.
Quando Chiesa e Stato e a reazione il popolino, la smetteranno di pensare che le donne stiano due spanne sotto agli uomini, l’oratore dentro una sala dove c’è un solo uomo e 100 donne, non dirà più amici ma amiche e quell’unico uomo non si sentirà offeso o intaccato minimamente nella sua mascolinità.
La lingua è il riflesso della storia della mentalità, è un prodotto della mente. Se non cambia la mentalità, cambiare forzatamente la lingua e trovare nuovi segni per salvaguardare la parità di genere con un presunto neutro, non ha senso. L’introduzione di un segno arbitrario che però non corrisponde ad una reale e concreta evoluzione sociale, rimane operazione inerte e propagandistica che non intacca in profondità il reale, ma ci scivola sopra.
Non è la lingua a modellare il cervello, come sostengono alcuni, ma il contrario, perché è il cervello che la produce. Jubin Abutalebi, neurologo cognitivista: «La parola che indica uno stesso oggetto in lingue diverse può acquistare sfumature differenti, che dipendono dal substrato culturale specifico».
Il totem del sema linguistico da modificare per non urtare le anime belle è un mito facilmente sfatabile: il sema fonetico e morfologico non cambia la mente di chi lo formula, poiché esso ne è un mero e semplice riflesso mutevole a seconda delle latitudini e degli impasti socio-culturali.
In italiano, ad esempio, per formulare un comando al positivo non basta troncare la sillaba finale di un infinito presente (“Mangia!” da mangiare): se si cambia la coniugazione, la seconda persona singolare prende il sopravvento e la lingua non formula l’ordine “Scrive!”, ma lo adegua alla persona chiudendo il timbro della sillaba finale (“scrivi!”); questo avviene anche in castigliano dove il troncamento della r finale dell’infinito presente non è sufficiente per indicare la seconda persona cui si ordina: “¡Ama!” da amar, “¡Come!” da comer, “¡Siente!” da sentir, “¡Vive!” da vivir. Anche in quella lingua la vocale che precede la r finale del modo infinito cambia nella 3^ coniugazione, dove la i si trasforma in e. In inglese basta togliere il to, marker dell’infinito presente, e si ottiene la seconda persona singolare dell’imperativo (“Do!” da to do, “Write!” da to write, “Eat!” da to eat). Ma per formulare gli ordini alla prima persona plurale (“Mangiamo!”) l’inglese deve ricorrere alla perifrasi con l’imperativo del verbo to let, “Let us eat!”, in pratica: “Lascia che noi mangiamo!”.
E così dicasi per l’idea temporale futuribile che per l’italiano formula certezza (“Quando verrai”), mentre per il castigliano esprime forte dubbio eventuale (“Cuando vengas”) ribaltandola al congiuntivo presente, laddove l’inglese marca ancora più fortemente la sicurezza dell’accadimento esplicitandola al presente indicativo (“When you come”), esportando questa convinzione addirittura nella protasi di un periodo ipotetico del 1° tipo: “If you come, I will show you my town”, “Se verrai, ti farò vedere la mia città”.
Tornando alla formulazione dei comandi, in italiano basta premettere un avverbio di negazione all’infinito presente e si ha l’ordine al negativo: “Non mangiare!”, sottintendendo con ogni probabilità la seconda persona singolare del presente indicativo del verbo “dovere” : “Non (devi) mangiare!” . Gli spagnoli virano sulla preghiera ottativa e di nuovo usano il congiuntivo presente: “¡No comas!”. Gli inglesi pongono l’ausiliario “do” seguito dall’avverbio di negazione e formulano il divieto: “Do not eat!”
Alle origini dell’italiano il latino formulava l’ordine al positivo troncando la sillaba finale dell’infinito presente (ama, mone, lege, audi), mentre per il negativo aveva due espressioni circonlocutorie:
– con la seconda persona dell’imperativo del verbo nolo, non volere: noli amare, noli monere, noli legere, noli audire;
– con la negativa “ne” abbinata alla seconda persona singolare del perfetto congiuntivo: ne amaveris, ne monueris, ne legeris, ne audiveris.
Ognuna di queste formule rappresenta un riflesso fonetico di un modo di elaborare le idee del comando e quelle del futuro; orbene, chi può giudicare un popolo e il suo grado di civiltà dal modo in cui gli organi fonatori elaborano il suo pensiero? Nessuno, ovviamente, talché da secoli gli uomini viaggiano, apprendono altri idiomi, si adeguano al parlare locale senza traumi o valutazioni dispregiative della mentalità allotria. La lingua cambia, si evolve, ma il sentire umano riflette sovrastrutture culturali, sociali, religiose, economiche, politiche antisismiche e non rimediabili con mutazioni di linguaggio.
La lingua è l’effetto del substrato culturale, perciò se si vogliono cambiare le cose, si deve agire sulla causa non sull’effetto, ossia sul substrato culturale, non direttamente sulla lingua che cambierà soltanto quando si modificheranno le basi culturali e mentali su cui poggia. Dire è pensare. C’è una interrelazione profonda tra questi due verbi, un legame che non può e non deve essere ignorato. Lo sapeva bene Ludwig Wittgenstein che nel suo Tractatus Logico Philosophicus ebbe a dire: “La proposizione mostra la forma logica della realtà. L’esibisce” (4.121).
La relazione del linguaggio con la struttura del mondo è dunque imprescindibile. Che le scrittrici tv si rassegnino nelle loro sterili rivoluzioni del nulla fritto.

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