Montazio, Aurelio Bianchi-Giovini

Montazio, Aurelio Bianchi-Giovini

Montazio, Aurelio Bianchi-Giovini

Montazio, Aurelio Bianchi-Giovini

Montazio, Aurelio Bianchi-Giovini, 1862, credit Antiche Curiosità©

Mary Blindflowers©

Montazio, Aurelio Bianchi-Giovini

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Enrico Montazio, vero nome Enrico Valtancoli (Portico di Romagna, 28 settembre 1816 – Firenze, 22 ottobre 1886), figura pressoché obliata del Risorgimento italiano, dà alle stampe nel 1862 con l’Unione Tipografico Editrice di Torino, un libro di piccolo formato che costava 50 centesimi, sottile copertina color giallo senape, ritratto in antiporta, serie I Contemporanei Italiani, Galleria Nazionale del Secolo XIX numero 55. Il libro si intitola Aurelio Bianchi-Giovini, ed è infatti dedicato al coraggioso pubblicista anticlericale con vivaci incursioni nel mondo del giornalismo di allora.
Non senza accenti critici, infatti, Montazio, partendo dai primi padri del giornalismo italiano, quali Gozzi, Baretti, Verri, etc., traccia un excursus dei vari giornali sorti nello stivale con un carattere non puramente elencativo, infatti aggiunge curiosità varie. Per esempio, scrive che La Biblioteca italiana fu il solo giornale ad elogiare l’Edipo nel bosco delle Eumenidi del liberale anticlericale Giambattista Niccolini. “E si comprende con quale scopo. Infatti venne fatto carico al Niccolini di tale elogio su tal giornale. Ma a chi a lui osò parlare ironicamente della carezza austriaca, ei minacciò” – scrive Montazio – “di fiaccar l’osso del collo, cosicché i motteggiatori tacquero”.
Di Monti scrive che fondò il Poligrafo nel 1816 per sfogare la sua bile contro il Foscolo e l’Acerbi e contro cento altri, “e per sferzare i letterati invisi al governo”. Monti infatti è sempre stato un allineato salottiero che ancora oggi piace agli intellettuali da salotto.
Scrive il Montazio relativamente al Poligrafo: “giornale mensuale, grave, pedantesco, aggressivo, ma per qualche tempo svegliante molta tèma – loché, pei vigliacchi, significa qualche volta molta stima”.
Montazio definisce “fossile” il Giornale Arcadico, “dalle secolari e soporifere pagine, albo voluminoso, fra innocente e babbeo… per quasi un secolo sembra non avere avuto altra massima di condotta all’infuori di lasciar sempre il tempo come gli accade di trovarlo”.
Giuseppe Montanelli e Silvestro Centofanti fondarono, a Pisa, L’Italia. Lo stesso Montanelli in Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1844 al 1850, p. 294, scriveva:

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Chi è avvezzo alla vita delle nazioni libere non si può fare idea della difficoltà di fondare il giornalismo politico in paesi uscenti dalla schiavitù… Occorrevano capitali. Ci mettemmo, in quindici o sedici, per provvedere alle spese dei primi fogli dell’Italia con quaranta lire per uno. Ecco il capitale. Occorreva montare un uffizio… feci uffizio del giornale la casa mia… Occorrevano inservienti non avendo da pagarli, nei primi giorni ci servivamo da noi. Gli stessi che scrivevamo gli articoli, andavamo alla censura, vegliavamo alla stampa, ripiegavamo le copie per gli associati, facevamo gli indirizzi.

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La reazione del 1849 eliminò molti giornali. Non rimasero in vita se non “gli organi ufficiali del governo sussidiati da quelli del gesuitismo”.
E non mancò chi divenne celebre nel giornalismo per aver dato scandalo ed essere finito in carcere, come specifica Montazio:

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Il Tenca incominciò la sua carriera giornalistica nel Corriere delle Dame. Diventò celebre, tutt’ad un tratto, per aver seguito una modistina fin dentro al confessionario d’una chiesa, scappata perdonabile in uno che faceva il corriere delle mode. Gli Austriaci che non perdonano neanche al galanteria, lo misero in carcere. Così diventò interessante. Egli dalle mani del Battaglia prese la Rivista Europea. Oggi il Tenca fa parte del cenacolo della Perseveranza.

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Il giornalismo letterario fu ridotto al silenzio dai cataclismi del 48 e del 49. Montazio era convinto che il decadimento del giornalismo avesse condizionato sia il risorgimento politico sia le belle lettere: “giornalismo e letteratura e risorgimento politico d’una nazione sieno da considerarsi come anelli di una istessa catena, ad uno dei quali non è dato arrugginirsi, allentarsi od infrangersi senza che tutti gli altri non ne risentano alterazione e danno”.
Anche Bianchi-Giovini era collegato alla sorte di due giornali, quella dell’Opinione e dell’Unione della cui storia però il Montazio non parla. Piuttosto preferisce concentrarsi sulle meschinità dei nemici del Bianchi-Giovini che, come si sa, era di umili origini. I nemici del pubblicista, ossia “clericali, mazziniani e austrieggianti”, non mancarono di tiranneggiarlo in modo classista e snob perché era figlio di una guardia carceraria, rinfacciandogli la “bassezza dei natali”, dicendo che “nacque in prigione, tra le imprecazioni dei ladri e le bestemmie degli assassini”. Con altrettanta meschinità i biografi avversari lo accusarono di usare uno pseudonimo, come se fosse un reato penale. Si chiamava infatti Angiuolo Bianchi. Montazio lo difende, argomentazioni più che efficaci:

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Quale è il paese il quale non conti una quantità di illustri personaggi, spettanti alle lettere e alle arti, la cui fama passò alla posterità sotto il velo più o meno trasparente d’uno pseudonimo?… Chi pensò mai a far carico ad Aurora Dudevant d’essersi data il nome di Giorgio Sand, alla contessa d’Agoult di farsi chiamare Daniele Stern, a Noemi Constant di sottoscriversi Claudio Vignon?… Ed il vezzo è egli forse odierno? Voltaire non avrebbesi dovuto chiamare Arouet, Molière sottoscriversi Poquelin e così via dicendo? In Italia non abbiamo visto angelo Poliziano prendere il nome della città toscana ove nacque? E qual colpa commise mai Pietro Trapassi a compiacersi del più sonoro e poetico nome di Metastasio?

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Montazio aveva ragione sulla meschinità delle accuse dei biografi a Bianchi-Giovini, ma tant’è, quest’ultimo non è mai stato un personaggio comodo né accomodante.

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