La scrittura è un lavoro?

La scrittura è un lavoro?

La scrittura è un lavoro?

La scrittura è un lavoro?

Trame in trasparenza, credit Mary Blindflowers©

Mary Blindflowers©

La scrittura è un lavoro?

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Kafka lavorava in una compagnia di assicurazioni, e non seppe mai di essere uno dei più grandi scrittori del Novecento; Bukowsky era impiegato postale e soltanto a 49 anni suonati decise di lasciare il lavoro alle poste per dedicarsi alla scrittura. William S. Burroughs faceva il disinfestatore di ambienti dagli insetti nocivi. La signora del giallo, la famosissima Agatha Christie, era assistente farmacista con un salario annuale di circa di 16 sterline. Fyodor Dostoevsky era ingegnere. Nel tempo libero traduceva letteratura francese e scriveva. Anche Joyce scriveva nel tempo libero, era infatti operatore cinematografico. Jack Kerouac fece diversi e svariati umili lavori, dal lavapiatti, al benzinaio, dal raccoglitore di cotone, al mozzo, dall’addetto all’avvistamento degli incendi, all’ impiegato nelle ferrovie. Jack London pescava ostriche in modo illegale, rubava ostriche dagli allevamenti e poi se le rivendeva. Herman Melville non disdegnò diversi mestieri: impiegato di banca, insegnante, mozzo. John Steinbeck lavorava come guida turistica e custode di un allevamento di pesci. L’elenco potrebbe continuare.

In poche parole molti grandi scrittori consideravano la scrittura una passione, non un lavoro, perché la scrittura, si sa, non paga, il lavoro invece consente di vivere.

Chi è che oggi guadagna soldi dalla scrittura?

Due categorie di persone, disposte a ribadire in pubblico che la scrittura è un lavoro come altri e a negarle ogni valore come passione: gli accademici, che pubblicano perché sono accademici, dato che possono tranquillamente appioppare i loro capolavori agli studenti, e i divi tv, presentatori, veline, opinionisti, e ancora i figli di accademici, opinionisti, presentatori, etc.
Il comune mortale (fuori dall’ambito accademico e dal circuito dei media che contano), che decide di fare lo scrittore, non potrebbe mantenersi senza un lavoro che garantisca un introito sia pur piccolo, quindi la scrittura viene automaticamente considerata una “passione” per forza di cose, perché oltre alla dinamica della fantasia e della ricerca, esiste una dimensione terrena e quotidiana con cui occorre confrontarsi ogni giorno e, a meno che non si viva di rendita, come le damine nobili e i signori delle epoche antiche, occorre guadagnarsi il pane, quello che la religione ricorda nelle preghiere: “Signore, dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Peccato che manna dal cielo non ne cada, quindi non è il Signore a distribuire pani e moltiplicare pesci, contrariamente a quanto ci propinano i Vangeli, ma il lavoro, la nuova schiavitù moderna.
Ogni volta che si avvia su un social una discussione circa il valore della scrittura come lavoro, trovo dei personaggi disposti a giurare e spergiurare che chi considera la scrittura solo come passione, tale la farà rimanere, (Nadia Filippini docet su Fb), perché la scrittura dovrebbe essere considerata un lavoro a tutti gli effetti, testuale, un’attività in piena regola per cui si percepiscono lauti anticipi, prodigiose royalties, guadagni favolosi, insomma. Poi, scorrendo la biografia di questi soggetti così positivamente disposti, questi professionisti indefettibili della scrittura-lavoro, noto che sono accademici, che pubblicano con la grossa editoria, e sorrido.
La casta che vive sulla luna e pensa di essere migliore di qualsiasi comune mortale e di dare lezioni di stile al mondo, considera la scrittura come lavoro, e vi ripeterà sempre, come un mantra, che se uno scrittore è bravo, viene pagato in anticipo perché vende. Sarebbe come dire che Moccia prende anticipi dagli editori perché vende e vende perché non solo sarebbe uno scrittore (che ridere), ma anche bravo, lo stesso possiamo dire di tanti altri.
Seguendo lo stesso ragionamento Kafka, Bukovsky, Agatha Christie, Dostoevsky, Kerouac, Melville, London e tanti altri, non sarebbero scrittori, dato che scrivevano nel tempo libero e consideravano la scrittura come una passione, un’esigenza insopprimibile dell’animo.
La casta non dirà mai la verità sull’editoria, non vi dirà mai le cose come stanno, tenderà a nascondere la verità perché ha interesse che le cose rimangano esattamente come sono. Ciascun componente della casta vi dirà che ha avuto successo perché è bravo e vi tratterà da perfetti deficienti, spiegandovi con sussiego snob, come ad un bambino demente, che la scrittura non è solo grammatica corretta ma anche stile e impegno, un lavoro, bla, bla. Chiacchieravuotodoro non saprebbe far di meglio per indorare la tragedia del nepotismo mascherata sotto la pelle del talento.
Allo stato attuale considerare la scrittura una passione e non un lavoro, non è un reato, ma l’atteggiamento intelligente di chi ha superato la dinamica dell’illusione pubblicizzata dalla casta che mente spudoratamente sulle dinamiche talento-successo, in un mondo in cui saper scrivere è un fattore puramente secondario e spesso assolutamente incidentale nell’economia del discorso editoriale, degli anticipi, dei guadagni e delle vendite, tutti fattori che hanno poco a che fare con il talento, infatti è noto che le case editrici danno anticipi agli scrittori tv, per libri mai scritti, libri che nemmeno hanno mai letto, affidandosi al solo nome, in barba a qualsiasi tipo di seria valutazione di un manoscritto. Questo la dice lunga su come funziona l’editoria oggi.

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