Il cranio di Confucio

Il cranio di Confucio

Il cranio di Confucio

Il cranio di Confucio

Water, mixed media on canvas by Mary Blindflowers©

 

Angelo Giubileo©

Il cranio di Confucio

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Non basterebbe senz’altro una vita, ma tante diverse vite a ripercorrere i passi dei nostri antenati; nonostante che nostra intenzione sia stata sempre quella, in qualche modo, di conservare e tramandare la memoria dell’esperienza da noi vissuta. Al di là del bene e del male! – categorie astratte -, le quali hanno influito più di ogni altra cosa sull’occultamento e l’interpolazione della memoria stessa. Clamoroso è stato il tentativo concernente l’editto di Saint Claud, a opera di Napoleone Bonaparte, secondo cui i morti andavano seppelliti in tombe, tutte uguali, poste al di fuori delle cinte murarie cittadine, con l’obbligo ulteriore di non recare alcuna iscrizione. Qualcosa di simile, ma non esattamente, a ciò che si legge nel Vangelo di Luca e di Matteo, allorché fanno dire al Nazareno: lasciate che i morti seppelliscano i loro morti. E invece: vita e morte si appartengono, entrambe, indissolubilmente. Basta prestare attenzione alla memoria del passato, del presente e di ciò che potrebbe riservarci il futuro (senza averne alcuna certezza!)

Marcel Granet ha disvelato i passi di quello che nell’antica Cina feudale è stato il più antico culto, ancestrale, degli Antenati; dimostrando a suo dire, senza tanti giri di parole, che la memoria dello stesso e degli annessi riti sia stata conservata molto meglio che, in Occidente, la storia dell’antica Roma. Dovremmo tuttavia essere consapevoli che quando iniziamo una ricerca sull’origine della nostra storia e delle nostre storie, non possono o non dovrebbero esistere limiti, separazioni, distanze che non possano essere raggiunti e superati. Mediante l’arte della Tecnica, quale che sia, abbiamo imparato a smontare, montare e rimontare tutti i mattoncini dell’essere con cui abbiamo a che fare. Siamo diventati Fabbri, come Efesto o Vulcano o qualunque dio del fuoco, dopo che in origine siamo stati viceversa Architetti. Se in proposito aveste qualche dubbio, Hertha von Dechend vi ribadirebbe che fin dalla tesi di abilitazione la sua ricerca è stata incentrata sul “complesso mitologico che ruota attorno alla figura del Deus faber – Enki/Ea in Mesopotamia, Ptah in Egitto, Tvastr in India, Tane/Kane in Polinesia, Efesto, Wieland, Goibniu e così via -, e che narra dei suoi aiutanti, delle sue grandi realizzazioni, del suo ruolo di custode dell’acqua della vita, nonché della sua evoluzione da architetto a fabbro”.

Si tratta di parole usate con sapienza, che fanno riferimento a una funzione a quanto pare essenziale, e cioè quella di custodire l’acqua della vita. Qualcosa che, nella sostanza, potrebbe confermare la nostra ipotesi di partenza relativa alla funzione di conservare, formalmente, la memoria dei fatti accaduti, e così tramandarla, di avo in avo, secondo forse il più antico culto o rito.

Ma: qual è il significato del ruolo del custode? Qual è il suo significato originario? Se, originariamente, è egli stesso un architetto, che poi diventa fabbro, è evidente che – e non potrebbe dirsi né pensarsi diversamente – egli operi con i mattoncini dell’essere che ha a disposizione, gli Elementa (di Euclide) che, potremmo anche dire, ha esso stesso dapprima ereditato, sin dall’origine o inizio e fino all’attualità.

Chi ha frequentato la scuola ginnasio-liceale, si è certamente imbattuto (sono altrettanto certo, in maniera per lo più distratta!) sulla questione omerica: Omero è veramente esistito? E chi è stato? La questione, nient’affatto recente, risale forse ai primordi della tradizione greco-micenea e si trascina ancora irrisolta. Ma: non può non esserci stata un’origine, un inizio da cui le storie dei due poemi più noti della classicità, l’Iliade e l’Odissea, siano state tratte. Nella contemporaneità, ha preso consistenza una diversa, ma non certo nuova teoria (se guardiamo alla ricerca di personaggi come Bal Gangadhar Tilak, e altri), secondo cui le origini dei due poemi siano nordiche. Il resoconto più completo di questa teoria, allo stato attuale della ricerca, ci è dato dall’opera incessante di un ingegnere (credete sia un caso?!), di nome Felice Vinci. La sua opera, Omero nel Baltico, è giunta in questo mese alla settima edizione.

Vinci sostiene che la storia degli antichi Greci abbia avuto inizio nell’area baltica e scandinava, provenga cioè dalla storia di una cultura e quindi di una popolazione intera che verso l’inizio del II millennio a.C. ebbe motivo di spostarsi, per ragioni essenzialmente climatiche, dal più freddo nord verso il più caldo sud del “mondo” conosciuto e, così in fine, approdare nel Mediterraneo (magari, a Itaca!). E tuttavia: anche freddo e caldo sono categorie, tuttavia e stavolta non certo astratte, che fanno della realtà viceversa una rappresentazione, sia pure, per così dire, più affine. E comunque, se così fosse, dovremmo riscoprire tracce di memoria delle storie “greche” nelle storie “norrene”. Ed è questo il compito che ora vi affido, ma senza affatto esimermi qui, di seguito, da qualche accenno.

Il Gylfaginning ovvero L’inganno di Gylfi racconta che ogni cosa ha avuto origine dal e nel Ginnungagap, il Grande Abisso, il Caos, “in-distinto”, dei poeti e letterati dell’antica Grecia, attraverso una successione di ere: prima della creazione stessa, vi fu Niflheimr. Il cui nome (nomen omen) è un composto di Nifl e heimr (=mondo). Niflheimr è la terra (mondo) del ghiaccio, del freddo, della nebbia e di tutto ciò che è nemico. Essa era collocata a nord del Ginnungagap e attraversata da una fonte Hvergelmir da cui scorrevano diversi fiumi. Quelle acque che hanno nome Elivagar … Entrambi i nomi (Hvergelmir e Elivagar) fanno riferimento a una corrente d’acqua scrosciante e impetuosa, forse una cascata, che, come ogni fiume, sorgeva da un monte e, nel racconto del Gylfaginning, lontano dalla sorgente, si trasformava in schiuma velenosa; così che la schiuma, indurendosi, si trasformava in ghiaccio. Come la scoria che sprizza dal fuoco. Mentre le esalazioni della schiuma, gelandosi, si trasformavano in brina. E quando la brina fu investita dall’aria calda, che proveniva da Muspellsheimr, la brina cominciò a sciogliersi e a gocciolare, in quelle gocce sorse la vita. Muspellsheimr è la terra (mondo) del fuoco, del calore, della luce, e prima di ogni cosa, la parte meridionale del Ginnungagap preservata dalle scintille e dalla materia incandescente che sprizza da Muspellsheimr. Ma: il Tutto non era diviso in due aree, una a nord e una a sud; dato che il resto del Ginnungagap era mite come aria senza vento. E dunque: fu qui che si formarono le stirpi? Fu qui che crebbe la schiatta umana?

Anassimandro, quasi allo stesso modo, sostiene che all’origine del Caos esiodeo, che egli chiama invece Apeiron, la terra e l’acqua fossero al centro e il fuoco intorno; e che il fuoco facendo evaporare l’acqua fece in modo che il vapore diventasse aria; e fu dalle acque calde dei mari che derivarono tutte le forme di vita terrestre. Oggi, la scienza crede che la vita animale si sia sviluppata allo stesso modo (Jim Baggott, Origini).

Ma, rispetto al greco antico, il racconto norreno sembra ancora più antico. Ymir è il nome del primo essere animale, il nome appartenuto all’Antenato della prima stirpe dei giganti, e quindi comune a tutte le altre stirpi che da lui prendono forma: dapprima una vacca, poi un uomo e in fine, dall’unione di un gigante e di una donna, la stirpe degli dei. Sono gli dei stessi a uccidere Ymir, che i giganti della brina chiamano Aurgelmir. Il nome, che indica la specie, è quindi un altro nome composto: Y-mir e Aurgel-mir.

Franco Rendich in L’origine delle lingue indoeuropee, scrive che la radice sanscrita “mir”, in latino mir, indica: l’azione di “andare (ir) verso un punto fisso (m)”, “essere attratti”, “rivolgere lo sguardo o pensiero verso un punto determinato”, “raggiungere (r) il limite (m)”, “morire”, etc. Quanto invece ai prefissi “Y” e “Aurgel”: “Y” non è che un rafforzativo, dato che, nella forma verbale, la consonante sta per “andare”, “muovere”, “avanzare”; “Aurgel” invece è un altro composto: au è un incremento di “u” che indica stabilità e, semplificando, per derivazione, urja è termine che sta per “forte”, “potente”. L’idea è che i Giganti, che vivono nel mondo al confine con gli Dei (Odissea VII, 201-206), sono “uomini tracotanti” (Odissea VI, 5), “superbi” (Odissea VII, 58-59), “ingiusti e violenti” (Odissea IX, 106), tali che – aggiunge Har: Per nulla affatto lo (Ymir) consideriamo un dio. Era malvagio con tutta la sua discendenza, che chiamiamo dei giganti della brina.

Importantissimo particolare da annotare: il discorso del Gylfaginning volge, qui e ora, al presente; mentre immediatamente prima e immediatamente dopo continua a volgersi al passato. Significa che nel racconto attuale di Snorri Sturluson gli Dei continuano a detronizzare i Giganti, a cui legittimamente, per diritto di anzianità, spetterebbe invece il regno. Accadde cioè, in maniera errata, ciò che – secondo il comune buon senso ma contrariamente al senso comune – accade quasi sempre tuttora. Ma, mai delitto può essere completo (Kurt Godel ha infatti dimostrato che la completezza non è di questo mondo!): I figli (gli Dei) di Borr (Figlio dell’Uomo) uccisero il gigante Ymir, ma quando egli cadde, sgorgò tanto sangue dalle sue ferite che essi vi poterono annegare tutta la stirpe dei thursi della brina a eccezione di uno che si salvò con i suoi: i giganti lo chiamarono Bergelmir. Egli salì in un tronco cavo e con lui sua moglie e così si salvarono e da loro discendono le stirpi dei giganti della brina.

Questa storia dell’albero cavo – che ammetterete appare alquanto strana – ha tuttavia precedenti illustri. In particolare, nella storia dell’antica Cina feudale di Granet, si tratta innanzitutto del Gelso cavo. Il Gelso cavo rappresenta “la dimora del Sole”, è “l’Albero dell’Est da cui sorge il Sole Levante”, ma ancor prima, direi, è il riparo di Yi Yin, che aiutò a fondare la dinastia Chang, proprio come presiedette a quella di Confucio, rampollo di questa dinastia (…). Yi Yin, trovato in un Gelso cavo, fu salvato dalle Acque sgorgate da un mortaio. Gelso cavo = K’ONG-SANG è anche l’antico nome del luogo in cui fu concepito Confucio. (Egli) aveva il cranio più alto sui lati e scavato al centro … Confucio venne chiamato Ni … Il suo nome di famiglia era K’ong. K’ong significa <buco>; è equivalente alle parole <caverna> e K’ong, <incavo> (Marcel Granet, Danze e leggende dell’antica Cina).

E tuttavia, la storia dell’antica Cina si arricchisce di un altro particolare, fondamentale. Nell’intermezzo della più antica Memoria, il topos originario – come avrebbero detto i greci antichi – del norreno frassino Yggdrasill ha ceduto il posto, nella tradizione cinese, a due alberi cavi; oltre al Gelso cavo anche la Paulonia cava, alberi cardinali con i quali si poteva celebrare il Cammino del Sole. Per così dire: senz’altri infingimenti o rappresentazioni, è accaduto che una stirpe diversa di Antenati – per Vinci, si tratta dei divini (Odissea V, 35) Feaci – si sia messa in moto, abbia abbandonato il suo luogo natio, una volta stabile ma divenuto in/stabile, e si sia diretta altrove: dal nord dell’Artico al sud del Mediterraneo. A causa, si presume scientemente, di un forte e decisivo cambiamento climatico. L’intero resoconto di Granet fa riferimento all’Antenato-Fondatore di una Stirpe-Dinastia capace di salvare il “mondo” (la Cina) sia dal Grande Straripamento delle Acque (conseguente allo scioglimento dei ghiacciai) che dall’altrettanto flagello della Grande Siccità. Infatti: K’ong-sang, il Gelso-cavo, è stato sconfitto dalla Siccità. Nella mitologia indiana, benedetta da Tilak, Vrtra è “il ghiacciaio”, “colui che copre”, “il demone che imprigionava le acque nelle nuvole o sulle montagne creando così oscurità e siccità. Sarà ucciso da Indra (che porta in salvo il Sole)” (Rendich, Ibidem).

E dunque questa storia, che non sembra avere una fine, ha comunque avuto un inizio. Che, mediante il nome, formato da una sola sillaba, di Confucio – Ni -, come un fiume, ci consente di risalire la corrente, e quindi controcorrente, come fanno i salmoni, giungere alla vetta o alle vette della sorgente. Rendich afferma che la costruzione della lingua madre indoeuropea, il sanscrito, sia stata opera di un sacerdote-astronomo (?!) che “per prima cosa scelse la vocale i per indicare il moto <continuo>, azione tipica del verbo <andare>”. Indifferentemente se si tratti di un moto diretto verso un punto (r) o compreso tra due punti (t), è il significato della consonante N, n che sembra aver meglio conservato la memoria dell’inizio. Essa indica l’“acqua” e la “negazione”, il cui valore “nacque proprio dall’esperienza dell’oscurità delle acque notturne”. N è consonante da cui hanno inizio, a esempio, i termini sanscriti Nu=ristagno di acqua; Nr=uomo, che giunge dalle acque; Nara=umano, mortale. Il significato della consonante N fu pensato e generato in contrapposizione al significato della consonante D che indica la “luce”. Così che conclude Rendich: Poiché l’egiziano antico risale al 3.000 a.C. mentre l’indoeuropeo, come dimostra l’origine artica di Indra, risale ad un’epoca anteriore all’ultima glaciazione, e quindi almeno al 8.000 a.C., si può affermare con certezza che le idee indoeuropee di “acqua” e di “negazione”, espresse dalla consonante n, precedono di molti millenni le forme egiziane.

E tuttavia, prima di concludere, per parte mia, un’ultima annotazione. Scrive Parmenide: Posero duplice forma a dar nome alle loro impressioni: d’una non c’era bisogno, in questo si sono ingannati, l’una dall’altra figura distinsero e posero segni opposti fra loro, di qua il fuoco etereo vampante, utile, assai rarefatto, leggero, in sé del tutto omogeneo, altro rispetto all’altro; anch’esso però in se stesso notte cieca al contrario, forma densa e pesante.

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