Alain Robbe-Grillet, Le gomme

Le gomme, Alain Robbe-Grillet

Alain Robbe-Grillet, Le gomme

Le gomme, Alain Robbe-Grillet

Le gomme, Alain Robbe-Grillet, I edizione italiana, credit Antiche Curiosità©

 

 

Mary Blindflowers©

Alain Robbe-Grillet, Le gomme

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Alain Robbe-Grillet, esponente del Nouveau Roman, è uno di quegli scrittori che piace moltissimo alla critica accademica. Roland Barthes lo ha portato nell’Olimpo dei grandi letterati del Novecento. Così ho letto Le gomme, definito, a più riprese e con metodo pappagallesco, un romanzo “edipico”, “psicanalitico”, “una rivoluzione in cui la trama non conta”, “un’opera di pura superficie” nel senso più buono del termine, se mai ci possa essere un senso buono o un buon senso nel cercare profondità in ciò che profondo non è affatto, nel trovare abissi d’inconscio in un pozzo che ha perso il suo semplice ed esaustivo vuoto ed è stato riempito di terra.
Non posso parlare di delusione totale a proposito di Le gomme, perché quantomeno l’esercizio di stile è garantito, quel prolungamento da esaurimento nervoso della frase in circonluzioni descrittive completamente inutili e fini a se stesse, c’è. Che lo si chiami virtuosismo o capacità di scrittura, è lo stesso, resta il fatto che alla lunga, stanca perché non va mai oltre e la pagina non si carica di sensi. Robbe-Grillet ha uno stile impeccabile, niente sbavature nella camminata del personaggio, nelle iterazioni continue ed ossessive di gesti e dialoghi pervasi da una futilità che probabilmente nell’intenzione dell’autore ha uno scopo poetico, ma che nella ricezione del mio io da lettore ha lo scopo di frantumare la poca pazienza rimastami. Se è vero, come diceva Ionesco, che è possibile dire tutto e il suo esatto contrario, posso affermare che gli stessi motivi che portano i pigolii accademici a cinguettare continuamente e nostalgicamente, la grandezza di Robbe-Grillet, contribuiscono a rendermelo tedioso. Odioso no, perché la perfezione dello stile e la capacità geometrica di padroneggiare una lingua che non dovrebbe essere un compito di ragioneria, attenuano il tedio della presenza di una trama che non è nemmeno assurda, tanto è atona e inconcludente, una trama che è un aborto e che sembra concepita da un bambino.
C’è un finto assassinato che riesce a far credere che sia morto davvero, dato che alla polizia viene sottratto il cadavere, evitando qualsiasi eventuale autopsia. Le modalità di questa sottrazione indebita e del tutto inverosimile, non vengono precisate, perché, come dice la critica: “la trama non ha alcuna importanza”, dato che l’attenzione viene spostata su altre cose. Cosa siano queste altre cose non si capisce proprio bene. C’è una compulsione manicomiale nel descrivere l’ambiente. L’interiorità del personaggio non ha alcun interesse, l’attenzione dello scrittore coglie soltanto lo sfondo senza significato simbolico profondo.
Così Wallas cammina e lo scrittore elenca un po’ alla Simenon, minuto per minuto, tutto quello che vede il personaggio: le saracinesche, gli operai diretti verso il porto, gli impiegati, i commercianti, le madri di famiglia, i bambini che vanno a scuola, un vecchio, una donna, le vetrine, i filetti di merluzzo affumicato, le aringhe srotolate e arrotolate, crude e cotte, condite, etc. etc.
Il gioco si ripete, le iterazioni abbondano fino a raggiungere un surplus, una sovrabbondanza di particolari che sfibrano perché non hanno alcun significato oltre quello che si legge e sono puramente oziosi. Chi sostiene che dalla descrizione si intuisce l’interiorità del personaggio, vaneggia perché non è vero. La frammentarietà, le interruzioni brusche e continue, come in un dialogo di un paziente con lo psicanalista, non sono sostenute dal benché minimo significato che latita completamente.  I personaggi pattinano sulla superficie, sono essi stessi superficie, freddi, stereotipati, senz’anima, totalmente disumanizzati. Questo per la critica sarebbe un pregio. Faccio fatica a condividere questo pensiero e non perché mi dia particolarmente fastidio la disumanizzazione e la visione non antropocentrica, al contrario, mi piace il contro-antropocentrismo se è capace di comunicare qualcosa. Il problema è che qua è percepito soltanto come esperimento letterario innocuo.
Se la trama non conta e viene utilizzata soltanto come pretesto per abbandonarsi ad iterazioni descrittive in cui l’ambiente passa in primo piano e il personaggio va sullo sfondo, perché costruire una trama che non regge? La storia è inverosimile, piena di bachi, perché metterla in scena? Gli stessi interrogativi della polizia su un cadavere che non c’è sono balzani e gingillosi, utili a far belle frasi che si arrotolano su se stesse ma di fatto incapaci di comunicare profondità.
Niente cadavere, niente omicidio. Una regola semplice, elementare, che però Robbe-Grillet non segue, complicando artificialmente il semplice e soprattutto facendo questo per dirci nulla, per giocare a decostruire le regole classiche del romanzo. Ben venga la ribellione contro gli stili imposti ma se tale rivolta non coltiva un senso che vada al di là del virtuosismo stesso, ha poi tanto senso? Se dalla decostruzione non nasce uno stile nuovo, a che cosa serve?
Si coglie soltanto qualche accenno al potere ipocrita borghese, come en passant:

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Daniel Dupont appartiene a quella grossa borghesia mercantile e industriale cui non piace veder discussa in pubblico la propria vita, o la propria morte. E se non c’è giornale, in tutto il paese, che possa dirsi pienamente indipendente da loro, tanto meno ce n’è in questa città di provincia, dove il loro blocco onnipotente rimane senza incrinature. Armatori, fabbricanti di carta, mercanti di legname, industriali tessili, tutti s’intendono a meraviglia per difendere interessi identici…

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Forse è poco per definire Le gomme, un romanzo rivoluzionario, anche perché i dialoghi sono atoni, noiosi e ridondanti, ma se si è figli dell’alta borghesia che conta e che si finge di criticare “dall’interno”, ogni difetto diventa magicamente un pregio.

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Rivista Il Destrutturalismo

 

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