Marchesa di Riva, snobissimo fumoir

Marchesa di Riva, snobissimo fumoir

Marchesa di Riva, snobissimo fumoir

Marchesa di Riva, snobissimo fumoir

Natura ed Arte, Rassegna quindicinale Illustrata, dettaglio, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Marchesa di Riva, snobissimo fumoir

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In Natura ed Arte, Rassegna quindicinale Illustrata Italiana e Straniera di Scienze, Lettere ed Arti, 1894-95, Vallardi Editore, Roma-Milano, Fascicolo XV, compare, oltre a qualche interessante articolo che aiuta ad inquadrare la società Ottocentesca italiana ed estera, un pezzo snobissimo a firma Marchesa di Riva. Questa donna odiosissima confeziona L’arte e la moda, uno sproloquietto paperesco e altolocato in cui l’argomento principe è la moda dell’aristocrazia, persa tra ozio, castelli, residenze estive e “nidi moderni tra i più seducenti”. Come se non esistesse che la sua classe, la marchesa ha un concetto piuttosto aleatorio di indispensabilità, per esempio. In un’epoca in cui le classi popolari, sfruttate e cenciose, affollavano i quartieri delle città italiane e non solo, la douce dame, ci descrive, in sollucchero, come concetto ovvio, l’assoluta indispensabilità di sale da biliardo, mobilio Luigi XV, boschetti di arance che adornano ariose ville del Settecento, hall per l’anglomania, che era di gran moda, con tappezzerie, divani, trofei, palmizi in grandi vasi, stanze uso chiacchiere, balli, musiche, palcoscenici dentro casa, dolce far nulla che tanto ci sono gli altri a camparti, spogliatoi simili a boudoir, cassettoni Pompadour, tavole Luigi XVI, poltrone bergères, letti a baldacchino e il fumoir, veramente necessario, a dire della scrivente, perché i nobili dovevano poter fumare senza appestare tutta la villa. Veramente problemi esiziali, di portata universale. Da grande espertona, l’autrice, non sapendo cosa fare per passare il tempo, dà consigli sulla disposizione delle sale, sui mobili adatti, sulle stoffe, etc. Insomma una arredatrice ottocentesca. La spocchia è gratuita e compresa nel prezzo:

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Il fumoir è pure tra le stanze indispensabili: e si capisce. Quale è il paese, la città, la casa dove ormai non si fumi? E dovunque si fuma, un luogo apposito deve esserci. Non v’è odore più penetrante di quello del tabacco, e, alla lunga, più dispiacente e insoffribile. Il fumoir dev’essere più presso che sia possibile alla sala da pranzo; ma nello stesso tempo in una parte sufficientemente ritirata della casa. Si raccomanda d’ornare di molte maioliche codesta stanza. I suoi mobili devono essere bassi e molli, coperti di stoffe orientali. Ci sieno su delle piccole tavole intarsiate di madreperla dei narghilé muniti di parecchi tubi, a fine che un gruppo d’amici possa fumare dallo stesso recipiente pieno di acqua odorosa; alle finestre dei cristalli colorati, non tende e nemmeno l’ombra di una portiera, che subito s’impregna di nicotina e riempie la piccola camera di antipatici effluvi…

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Poi descrive la sala da biliardo che, sebbene non considerata indispensabile come il fumoir, avrebbe addirittura presso la sua classe, funzioni moralizzatrici e igienizzanti perfino, perché gli uomini anziché andarsene in giro, sottinteso, dalle loro amanti, a prendersi chissà quale malattia, starebbero a casa a giocare a biliardo:

Gli uomini, poi, quando c’è in casa un biliardo, non sentono il bisogno d’andar fuori, e prendono la dolce, la buona abitudine delle serate in famiglia: che sono le migliori e le più indicate da ogni punto di vista. Il biliardo comporta un dispendio ma compensa largamente dal lato dell’igiene e da quello morale.

Infine passa alla moda, descrivendo come ci si debba vestire per ogni occasione, e via ai drappeggi, alle paglie ornate di fiori colorati, alla seta nera, ai corsetti, alle gonne di lanetta color sughero ai taffetas, ai guanti di Svezia, etc. etc.

Ancora nel 1900 ne II popolo dell’abisso di Jack London, il personaggio principale, un elegante americano, acquista presso una bottega londinese degli abiti usati, un abbigliamento da lavoratore, capisce subito che l’atteggiamento della gente verso di lui muta:

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Avevo fatto appena qualche passo per la strada, quando fui impressionato dal completo cambiamento prodotto dai miei nuovi vestiti sulla mia situazione sociale. Ogni vano servilismo scompariva, davanti a me, nell’atteggiamento della gente del popolo, con cui venivo direttamente a contatto. In un lampo ero diventato uno di loro. La mia giacca logora, strappata ai gomiti, proclamava che il mio stato sociale era anche il loro. Eravamo ormai della stessa specie, e l’adulazione di cui, fino allora, ero stato oggetto, si mutava in familiarità da compagni. L’uomo poveramente vestito di fustagno, dal fazzoletto unto al collo, non mi prodigava più del sir o del governor. Mi dava, passando, del compagno. Parola dolce e piena di cordialità, il cui suono ha un calore, una intimità senza pari. (…) Il cambiamento sopraggiunto nel mio stato sociale, per il fatto di avere mutato abito, aveva altre ripercussioni, di cui fu necessario tener conto. Così imparai che era necessario quando attraversavo la via nei punti più ingombri di vetture, decuplicare la mia agilità per non essere travolto. Rimasi colpito di quanto, in proporzione diretta dell’aspetto dei miei vestiti, la mia vita era diminuita di valore. (…) Ma per tutto ciò c’era un compenso. Per la prima volta, entravo in contatto con le classi popolari inglesi e imparavo a conoscerle dal vero. Quando, agli angoli della strada o nei pub, discorrevo con dei vagabondi o con degli operai, mi parlavano da uomo a uomo, con naturalezza e senza secondi fini. E quando, finalmente, penetrai nell’East End, fui ben felice di constatare che quella paura della folla, già da me provata, non mi preoccupava più. Ero diventato parte di essa. II vasto e maleodorante oceano, in cui ero entrato, si era richiuso sopra di me. E la sola sensazione sgradevole che provavo, era la maglia da fochista che continuava a rasparmi la pelle (J. London, II popolo dell’abisso, Milano, Sonzogno, 1974, pp. 14-19).

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Mentre gli aristocratici fumavano nell’indispensabile fumoir e la marchesa sulle pagine di Natura ed Arte, squittiva su come preferiva la villa e i vestiti di lusso, la gente comune considerava indispensabile non morire di fame. Ma l’aspetto allucinante di tutto questo è che ancora oggi, a tutti gli effetti, l’abito fa il monaco.

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