Povertà, lettere, stupidario consolativo

Povertà, lettere, stupidario consolativo

Povertà, lettere, stupidario consolativo

Povertà, lettere, stupidario consolativo

L’unico vero poeta, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Povertà, lettere, stupidario consolativo

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Se De Amicis con toni lacrimevoli degni di una soap opera, cantava gli occhi spenti, le guance cave, i miseri involti delle donne povere e smorte; se Neruda in La pobreza, cantava con accenti prosaici: Amor, no amamos,/ como quieren los ricos,/ la miseria. Nosotros/ la extirparemos como diente maligno/; Se per Renzo Pezzani sempre bene o male in prosa, i poveri sono altrove, sono quelli che sentite tossire/ nelle case, chissà dove,/ come tarli nei vecchi legni,/ senza poter morire/, oggi c’è un recupero nostalgico e romanticamente avulso dalla realtà del povero come un beato che si contenta delle piccole cose, che vive bene perché sarebbe pieno di buoni sentimenti, quindi, meglio una capanna e tanta bontà adesso che un castello e tanta cattiveria domani. Questo buonismo riduttivo e piuttosto infantile, che si ostina poi a distinguere pedissequamente povertà e miseria con discorsi piuttosto fumosi che stabiliscono gradi e quantità, arrivando a mangiare la zuppa con la forchetta dello stupidario consolativo, è di gran moda anche nella letteratura e nella poesia, scritta ovviamente da gente che la povertà non l’ha mai vista neppure in sogno, perché sono i ricchi a parlare soprattutto di povertà come grandi espertoni. Povertà in alcuni casi diventa addirittura sinonimo di nobiltà d’animo. La Gualtieri è convintissima di quello che scrive: Vorrei raccogliermi./ Ricomporre la sagoma interiore/ dell’infanzia e ancorarla lì/ nella purezza dei poveri. Vorrebbe ancorare la sua infanzia ricomposta alla pura povertà. Ma che belle parole. Forse augurarle di diventare povera per provare l’ebbrezza vera della povertà, sarebbe cattiveria? I poveri per i radical chic sono puri, sono buoni, sono belli, sono santi. La povertà è un rifugio, un nido e fanfaluche del genere. Di fatto però nella realtà nessun ricco vorrebbe diventare povero e nessun povero vorrebbe rimanere tale. I poeti hanno un bel cantare la purezza della povertà che è diventata quasi un topos demenziale. Magari un giorno da poveri potrebbe far loro cambiare idea.
Joseph Wresinski in Scritti e parole ai volontari (1960-1967), Ed. St Paul/Quart Monde, 1992, a sua volta scrive:

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Quando il povero prenderà coscienza dei valori del suo stato, guardando i ricchi non li considererà più tanto superiori. Non li vedrà come gente che lo ostacolerà. Se veramente considera il proprio stato valido avrà maggiori possibilità di affrontare il mondo circostante, di entrare in contatto con il proprio ambiente e di imporvisi. Ora qual è il valore originario che scopriamo per mezzo della miseria? Non la miseria stessa, sicuramente, bensì lo stato di povertà che fornisce agli uomini la semplicità, la modestia, la comprensione dei fatti della vita. Lo stato di povertà è il contrario dell’opulenza, dell’orgoglio, della potenza che fa ombra ai piccoli. Per avvicinarsi ai poveri occorre scegliere volontariamente la povertà. Questa povertà ci immerge in una sorta di tensione volontaria. Dobbiamo dire a noi stessi: “Ecco i beni di questo mondo. Per questa o quella ragione, io non li acquisisco, anche se potrei acquisirli”. Molte persone vengono qui dicendo: “Voglio occuparmi dei poveri”. Vogliono assolutamente entrare in contatto diretto con le famiglie. Eppure la prima cosa da fare sarebbe darsi una disciplina, una certa privazioni di beni.

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Il discorso non farebbe una piega se non soltanto i volontari, ma la Chiesa stessa e il suo apparato di potere, seguissero veramente il precetto di povertà e rinunciassero a tutti i loro beni per i poveri, ma di fatto questo non avviene. La Chiesa è ricca, quindi tutto il discorso di Wresinski va a farsi friggere a contatto col reale.
Accanto a scrittori che esaltano nei loro salottini la povertà, a preti che ne parlano come se il Vaticano fosse una capanna o la mangiatoia dove è nato Cristo, che ci tengono a sottolinearlo, era povero, ci sono poi i favolisti, divulgatori, giornalisti e blogger domenicali che, non sapendo come impiegare il tempo, sostengono che se uno è povero è perché vuole esserlo, dato che la ricchezza sarebbe solo uno stato mentale. Se c’è gente che sostiene che la terra sia piatta, non vedo perché non ci possa essere qualcuno capace di confondere una situazione imposta con una scelta. Se esistesse la reincarnazione e un minimo di giustizia, questi dementi dovrebbero rinascere sotto forma di un maiale che vive dentro una favela brasiliana e cercare di spiegare a chi vuol farne cotolette, che la fame è solo uno stato mentale in realtà inesistente.
Il distacco della filosofia e della letteratura dalla vera vita, denuncia tutta l’ipocrisia della classe sociale che detiene il monopolio e delle lettere e della ricchezza e che vede di volta in volta la povertà come uno stato di grazia o come una colpa, a seconda di come spira il vento del loro giardinetto con piscina.

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