Credibilità, poesia, menzogne, testi

Credibilità, poesia, menzogne, testi

Credibilità, poesia, menzogne, testi

Credibilità, poesia, menzogne, testi

Troppa nebbia, credit Mary Blindflowers©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Credibilità, poesia, menzogne, testi

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Giuseppe Ligresti marchia col merco della non credibilità chiunque si permetta di prendere le distanze dallo stile di alcuni “grandi” della letteratura passata e presente; chi parla male (cioè, esprimere giudizi non positivi) dei cosiddetti monumenti letterari non avrebbe credibilità, cioè non avrebbe la possibilità di esser ritenuto vero, direbbe delle menzogne. Orbene il verbo CREDERE si basa sul sanscrito ÇRAD – DHÂ, composto dal primo lemma che significa FEDE e dal secondo che significa MI PONGO; dunque significa prestar fede, essere persuaso di cose dimostrate dai fatti. Abbiamo sempre etimologicamente cercato di dimostrare dei fatti estrapolando brani di autori e facendone analisi dei testi, ragguagliandone i lettori con il dizionario alla mano laddove abbiamo rilevato usi incongrui del lessico e della sintassi. Dunque perché, fatti alla mano, sussidi didattici alla mano, non avremmo credibilità? Perché ci permettiamo di non conformarci alla massa? Perché non parliamo in televisione? Perché non abbiamo la tessera di un partito? Perché non siamo famosi? Per leggere un testo dunque occorre la fama?
Vediamo se siamo credibili analizzando i testi dello stesso Ligresti:

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Forse avrei bisogno solamente di riposare,
di stendere le ossa su un suolo infernale,
guatare da laggiù Dio
e quella lastra di cielo
che stramazzerà sui miei occhi
– con passo cadenzato
piomberà di forza sul petto
siffatta alla Sua forza Celeste.
Distingueranno brandelli di fegato
a gingillare nella risacca del mare.

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Vi è parecchia imprecisione lessicale in questa composizione, ne emergono contraddizioni logiche che rivelano una sostanziale trascuratezza nella scelta dei vocaboli: stramazzare significa “cadere di schianto, abbattersi pesantemente al suolo, specialmente in seguito a un colpo violento”; nella lirica soprariportata, oltre a non comprendersi che cosa possa percuotere una piastra che metaforicamente il poeta seziona dalla volta celeste, rimane di difficile omogeneizzazione ciò che egli esprime al verso successivo: “con passo cadenzato piomberà di forza sul petto siffatta alla Sua forza Celeste”. Orbene, come può un oggetto che precipita dall’alto conservare il suo ritmo uniformemente come la marcia di un manipolo militare ovvero come i movimenti senza variazione di un ginnasta o di un danzatore? Il moto per caduta si accelera progressivamente.
Che significa poi quel “siffatta” (piuttosto disusato e oramai sostituito da “tale, di tal genere” e spesso usato con connotazione spregiativa) accostato al successivo complemento di termine? Vuol dirci l’autore che quel pezzo di volta eterea precipiterà con violenza identica alla possanza del Suo Creatore?
Detto per inciso, l’autore usando nel giro di due versi il vocabolo forza denota una certa lessicopenia; ogni tanto qualche variatio lessicale non guasterebbe!
E chi sono coloro che riconosceranno dei frammenti di ghiandola epatica che si trastulleranno indugiando in passatempi (tale è la valenza del verbo “gingillare”!) durante il moto di ritorno delle onde che si scontrano tra loro quando sono respinte da un ostacolo?
In altre parole, Ligresti appare criptico, impreciso e confezionatore di scenari luguberrimi cui inopinatamente mescola fraseologia antitetica al contenuto (gingillare è verbo della spensieratezza fanciulla: come lo si può abbinare al galleggiamento di bocconi endocrini sfracellati?)

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Quali ore rilucono
in queste frescure di primavera?
San Giovanni è sempre lì,
a corpo nudo,
e così io, denudato,
così i risolini delle vecchie,
con le calendule al braccio
vanno al passo del mio viso quasi inumato.
Potrà mai l’ombra del ginepro
rinfrescare le arsure che ardono il mio Canto?
Saprà mai qualche ciuffo di strame
farsi amaca per il tuo torpore?
Ah, venisti anche tu quel 17,
anche tu con un mazzo in mano,
non ricordo se portasti
camelie o petunie
o se anche tu raccogliesti calendule,
ma di ridarella mi morivi
per i campi, e poi giù, tra i cespugli.

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Nella poesia qui sopra riportata egli mostra poi tutta la sua episteme da floricultore, alternando il fiorrancio Asteraceo al fiore importato da Georg Joseph Kamel, appartenente alle Theaceae e poi alla dicotiledone Solanacea, nonostante questa cognizione enciclopedica paia scivolare dalla sua mneme ragguagliata alla disgraziatissima dal punto di vista cabalistico (17) data in cui la amata gli si appalesò tutta florifera. Si parte da un raffronto tra un San Giovanni effigiato adamiticamente e la propria privazione di indumenti che parrebbe suscitare ilarità in povere anziani astanti, le quali procederebbero, udite, udite! “al passo del mio viso inumato”. Ci si chiede: come può muoversi un volto sepolto nella terra?
Ripetiamo: siamo di nuovo nella mescola di scenari macabri ed esilaranti infarciti di scelte lessicali circiteriche ed inappropriate che creano effetti scenici privi di contenuto e sentimento. La poesia non fa che ricalcare vecchi modelli classici e una simbologia trita che non viene sviluppata in modo sufficientemente creativo. L’effetto è quello di un affastellamento di immagini che si conclude in un barocchismo piuttosto vuoto che gira su se stesso cercando di stupire chi legge senza andare oltre, tant’è che la decrittazione di questo vate obsoleto e fatiscente si risolve in figure che compaiono sulla scena senza lasciare nessuna significativa impronta poetica.

 

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