Madre uguale alla figlia?

Madre uguale alla figlia?

Madre uguale alla figlia?

Madre uguale alla figlia?

Matrice riflessiva, credit Mary Blindflowers©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Madre uguale alla figlia?

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Maddalena Bergamin, accademica della Sorbona dove insegna lingua italiana, sembra che scriva poesia, peccato che tra lo scrivere e il sembrare di scrivere ci sia a volte un gap, come una rottura inevitabile. Forse non basta far parte di ambienti accademici per fare poesia. La Bergamin ne è la prova vivente. Segnalata come poetessa originale e profonda, ci ha lasciato un terribile senso di innocuità, sapete quando si parla tanto e non si dice nulla? Oppure quando si dicono due parole facendo intuire di aver detto qualcosa, ma anche in questo caso non si dice nulla? Ecco, a noi le poesie della suddetta “poetessa”, fanno quest’effetto. Per esempio, ecco alcune poesie da L’ultima volta in italia, Interlinea Edizioni.

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La madre è uguale alla figlia
sul fondo lo sfondo urbano, che strano
la madre è uguale alla figlia!
due volte e gli stessi capelli
rossi sul fondo urbano
sullo sfondo profondo e quanto…
profondo. La madre e la figlia
sono uguali, hanno casacche
fosforescenti e parlano dietro
la linea gialla, sullo sfondo i treni
dal fondo, i rumori corrotti
i lamenti, i brusii della gente
che sta sullo sfondo. La figlia
è uguale alla madre, (la madre bisbiglia
sorride, la figlia)

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La madre è uguale alla figlia. Fermo restando che questa sbandierata uguaglianza non viene approfondita in nessun modo, ma resta come dato di fatto superficiale ed insignificante mentre sullo sfondo corrono lamenti e brusii, ci siamo chiesti, leggendo e rileggendo, che cosa voglia dire questa poesia, tra l’altro, veramente assai poco ritmica, e siamo arrivati in due alla conclusione che il significato latiti del tutto. Formalmente ci si interroga se la Professoressa Bergamin, dall’alto della sua cattedra, coltivi il divieto di inserire la punteggiatura a fine verso, (l’asindeto ci pare obbligatorio ad esempio tra la fine della quintultima linea e l’inizio della successiva, per non parlare di quella virgola nell’ultima linea posta tra predicato verbale e soggetto della frase, anziché a separare le due coordinate assonanti). Sbalorditi leggiamo: “che strano” e già ci attenderemmo un punto d’esclamazione; invece nulla! La docente prosegue imperterrita e, senza soluzione di continuità, spara: “la madre è uguale alla figlia!”, ponendo il segno d’interpunzione alla fine di una frase di una ovvietà e routinarietà sconcertante: sembra l’accademica meravigliarsi sconvolta di una regolare somiglianza tra genitrice e prole dello stesso sesso! Boh? Poi prosegue con una cripticità angosciante: “due volte e gli stessi capelli rossi”; ora che una mamma fulva possa procreare una figlia altrettanto fulva e leonina nella chioma a noi non sembra un qualcosa da lasciare attonito chi guarda; ma ci interroghiamo ansiosi sul significato di quel “due volte” che si appalesa ex abrupto senza far intuire a chi legge a che cosa si riferisca. Penoso poi il tentativo di scimmiottare Montale nelle assonanze asimmetriche, dove la docente rivela una lessicopenia disarmante (fondo-sfondo – fondo-sfondo profondo – profondo… insomma, ce n’è di zavorra per andare a fondo!)
Ci troviamo di fronte ad un componimento vuoto e inerte sia dal punto di vista formale, tant’è che tutto si risolve in modo piuttosto prosaico, che da quello contenutistico: non ci tocca minimamente sul piano emotivo la meraviglia di una persona che osserva due donne simili come gocce d’acqua su una piattaforma di una stazione ferroviaria! Questa prosa che va a capo è poesia? Lasciamo in sospeso questa domanda.
Continuiamo:

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Perdersi, sottrarsi
lasciarsi dimenticare dal mondo
Prima di morire voltarsi
farsi pietra, sgretolarsi

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4 versi che non significano nulla e riprendono un motivo piuttosto frusto della poesia novecentesca, l’oblio del mondo, il farsi pietra come preludio mortifero, la disumanizzazione e l’identificazione in un elemento inerte. Peccato che il motivo non sia originale e i versi siano piuttosto scontati ed insignificanti, stolidamente privi di segni di punteggiatura se si eccettua quella tra l’infinito di esordio e il suo successivo: almeno se si sceglie una abolizione dei segni d’interpunzione si persegua il metodo omogeneamente e coerentemente, senza perderlo per strada con una grossolanità palmare!

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Scoppieranno anche queste stagioni
per averci stancati abbastanza
e andremo con gli occhi che bruciano
verso il sole che fiacca la schiena.
Tornerò per vedere che tremi
con dell’acqua da metterti in fronte,
anche il freddo a quel punto sarà
l’argomento più dolce e più vero
nella nebbia che fischia faremo
una foto dei nostri capelli
e la sera andrà incontro al mattino
per spiarci quando il sonno ci svela.

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Anche qui v’è un’enucleazione di gesti quotidiani che non velano nessuna metafora. La nebbia fischia? Non lo sapevamo. Nelle poesie può succedere, d’accordo. I personaggi faranno una foto dei loro capelli, si metteranno dell’acqua in fronte, avranno gli occhi che bruciano, tutto perfetto. Il problema è: il senso profondo che una poesia dovrebbe dare al lettore, attraverso un gioco di allusioni e simboli, dov’è? Qui è tutta superficie, decisamente, a parte lo stile veramente elementare, non si riesce a vedere niente che possa far dire, siamo nell’oltre. No, siamo qui e ci rimaniamo, e siccome valutiamo il testo, senza lasciarci impressionare dai titoli accademici, restiamo a leggere una sequela di parole inutili che girano senza andare da nessuna parte e che pure vengono definite a gran voce poesia, ma di fatto noi non vediamo nemmeno un verso. Tutta prosa.

Concludiamo trionfalmente:

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Guarda quanto più a lungo resisto
e dove mi fermo per ridermi addosso
è stato il caso, sappiamo che sempre
si consuma così l’idea e la sua smentita
tu porti nelle mani sottili il ritmo dei giorni
incagliati nei sassi, le vene che sempre
io spingo per uscire e raggiungere te
non altri rapiti momenti e parole
che oggi si sciolgano al sole.

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L’interlocutore viene invitato ad osservare una maggior resistenza di lei (non si capisce maggiore a che, a quando. Forse rispetto ad un passato che non ci è noto? ), a individuare il posto dove cessa di camminare per prendersi in giro? È stato il caso… a far che? Entrambi sarebbero al corrente che un pensiero e il diniego di esso si sciupa in questa maniera… cioè come? I giorni nelle mani piccole di lui avrebbero il passo di un intoppo tra le pietre, altrettanto dicasi per l’apparato vascolare di lei che viene messo sotto pressa onde permetterle di uscire e raggiungere lui anziché attimi rubati e parole da far squagliare sotto il calore dell’astro del mattino: bene! La parafrasi non dice niente e non scioglie gli enigmi della trama e dell’ordito di una pseudo-poesia che non comunica nulla, anzi, che comunica il nulla!

Morale della favola: si può essere accademici quotati e di livello internazionale, ma ciò non ci dà il passez-par-tout per essere definiti creatori di emozioni: noi a leggere la Bergamin non ci emozioniamo per niente, ci innervosiamo, piuttosto!
La cattedratica ci perdoni: sarà la veneranda età e le letture poetiche di cui ci siamo nutriti in gioventù, davvero ben differenti e molto più comunicative delle sue,  ma per noi la Bergamin e la poesia abitano su due pianeti differenti.

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Rivista Il Destrutturalismo

DESTRUTTURALISMO Punti salienti

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