Vita brevis, ars longa

Vita brevis, ars longa

Vita brevis, ars longa

Vita brevis, ars longa

Social Intelligence, drawing from Sketchbook, by Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Vita brevis, ars longa

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“La gente”, vera metafora di estraneità, non ama le verità spiattellate in faccia, preferisce le circonduzioni giranti e circumnaviganti attorno alle giravolte, le controsporte morte che non rompono le uova pietrificate nel culo delle galline dai concetti edulcorati, pii da pseudo-bontà universale con patina conformista. Preferisce, questa estranea ed estraniante “gente” che gli si dia invariabilmente e sempre ragione anche quando ha palesemente torto, altrimenti sei tu quello storto, quello che non va, il genio del male odioso odiato dall’anti-tradizione improduttiva alla polemica sterilmente svilente.
Ma il termine “gente”, è un’arma a doppio taglio. Chi è questa “gente” di cui la definizione appare sempre aleatoria e genericamente controproducente se non implicitamente in molti casi perfino inconsapevolmente auto-definente?
Il termine stabilisce un muro, una distanza tra chi parla e chi viene nominato nel discorso. “La gente” non siamo mai noi ma gli altri, questa è una regola fissa nei discorsi, sottintesa.
Il popolo social vario e svariegato, per lo più in avaria, protagonista dei nostri tempi digitalmente assuefatti allo zero, viene definito anch’esso “gente” nel generico contrappunto del generalizzatore di massa che, invece di distinguere nel mucchio, tende al numero abnorme, all’accumulo insensato di contatti virtuali per dimostrare quanto è ammirato e rispettato in ogni angolo del globo terracqueo digitale. Ciascuno di noi a turno diventa “gente” per qualcun altro che a sua volta lo diventa in altre occasioni, in un circolo vizioso che non ha mai fine.
Accanto a palettate di idiozie terrapiattiste, operatori da self-cheese, registi della porchetta sempre politicamente schierati qui o lì senza sapere bene perché, ci sono i “Sotuttoio” che nel loro cervello non sarebbero mai “la gente”, basta crederci. Si tratta perlopiù di pseudo-intellettualetti che si sentono già arrivati per aver pubblicato mezzo libro magari a pagamento, e sentenziano su tutto propinando certezze mai dubbiose. Si aspettano risposte sempre affermative da tutti coloro che considerano “gente”, e come le dive nelle passerelle dei grandi teatri, tappeto rosso sotto i piedi, davanti a loro non ti siedi, annusano consensi che danno sempre per scontati.
Intervengono dunque, lanciando pietre come storiche sentenze e sillogizzando sulle orecchie di Mida, nonché tessendo monopoli di intelligenza su ogni pelo ritorto di lana cervina su cui hanno tempo e agio di disquisire amenamente, prendendosi però sempre molto sul serio.
Seguono la moda imperante del momento che nei pubblici dibattiti è lo stravolgimento ad hoc delle parole di chi non mostra di gradire il loro punto di vista. L’aglio diventa così cipolla e la cipolla aglio in una confusione in cui tra petto e peto, tra caglio e raglio, tra cespo e Caspio, mare e care, sale e scale, averno e inverno, giocovuotodoro e disdoro, coro e moro, fustagno e stagno, non corre più nessuna differenza sostanziale.
Per trarsi d’impiccio il “Supersotuttoio” dà un senso nuovo alle parole che dici, stravolgendole e dicendo che hai detto cose che non hai mai detto in una confusione creata e cercata per trarsi d’impiccio e liberare le zampe dalla sua stessa tela di ragno.
Se l’interlocutore non ci sta, diventa immediatamente “la gente”, quella “gente” banale che pensa, che dice, che fa sempre il male, quella massa indistinta di nemici che non siamo mai noi.
Di fronte al più piccolo “ma” avversativo il divo si ossida, le travi delle palafitte cedono alla fuga. Inverosimile e scandaloso che non gli si dia ragione, ma ancora più penoso e offensivo il fatto che qualcuno non finga di aver gradito i sillogismi stravolgenti e miracolosi in cui ogni mela deve essere per forza di cose pure una pesca, perché lo ha deciso il “Sotutto”. Insomma, per buona educazione, chi è solo generica “gente”, può anche sforzarsi, attraverso acrobazie verbali o immagini prestampate, di contorcersi in circonluzioni che diano ragione senza dare ragione, che dicano senza dire nulla. Non si dice no diretto, è uno scandalo, offende. E non c’è niente di peggio di un “Sotutto” offeso.
Così al nostro eroe rimane un’unica provvidenziale via, salutare con un buongiorno o un buonasera, congedandosi e dichiarando di essere troppo educato per rispondere all’offesa mortale di aver trovato qualcuno che non sia d’accordo con lui in tutto e per tutto, perché il “Sotuttoio” è un “Sotuttoio” mentre “la gente” è “la gente” e non deve permettersi di ribattere. Come osa?
Ma siamo proprio sicuri nel definire “la gente”?
Non è che questo “Sotuttoio” così istruito, così stucchevolmente bene educato, alla fine possa esser lui quella “gente” di cui va tanto cianciando?
Ippocrate, alludendo all’arte della medicina, esclamava in uno dei suoi aforismi: ὁ βίος βραχύς, ἡ δὲ τέχνη μακρή, tradotto dai latini in vita brevis, ars longa, parole riprese da Seneca nel De Brevitate vitae e da Rabelais negli Almanacchi:

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Troppo breve la vita, troppo fragile il senso dell’uomo e troppo distratto l’intendimento per comprende cose troppo lontane da noi (F. Rabelais, Almanacchi, traduzione di Gildo Passini).

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Questo dovrebbe far riflettere sul fatto che offendersi per non aver ottenuto consensi da chi si percepisce estraneo, è soltanto una perdita di tempo.

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https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://en.calameo.com/books/0062373361d7556bb3ead

 

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