Inferno, Canto XIII, Selva dei suicidi

Inferno, Canto XIII, Selva dei suicidi

Inferno, Canto XIII, Selva dei suicidi

Inferno, Canto XIII, Selva dei suicidi

Il legno, credit Mary Blindflowers©

 

Inferno Canto XIII, note.

Mariano Grossi©

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“La selva dei suicidi” (vv. 1-21)

Dante e Virgilio, varcano il Flegetonte  con l’aiuto del centauro Nesso, già incontrato nel canto XII, e giungono in una selva  avvolta nelle tenebre (ars allusiva dantesca con Eneide  III, 22 sgg.) e priva di sentieri e Dante esplode in una sublime terzina antitetica e anaforica.
«Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.»
(vv. 4-6)
Assenza di piante verdeggianti sostituite da vegetazione tetra, rami annodati e intrecciati, assenza di frutti e abbondanza di spine avvelenate. La Maremma, sito di bestie che aborriscono i terreni coltivati non presenta identica asprezza di vegetazione. Le orrende Arpie, i mostri che espulsero i troiani dalla Strofade, (ancora ars allusiva con il III libro dell’Eneide) vi nidificano: con il loro corpo di uccello e il volto umano lanciando terribili lamenti.
Virgilio, prima dell’ingresso nel bosco, rammenta al poeta che si trovano nel secondo girone del VII cerchio, riservato ai violenti contro sé stessi, cui seguirà il “sabbione” dei violenti contro Dio e contro natura. esortandolo a guardar bene, poiché si accinge a vedere cose incredibili se non venissero osservate direttamente.

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“Incontro con Pier delle Vigne” (vv. 22-54)

Dante ode lamenti dappertutto, ma non vede nessuno, ed inizia a sospettare la presenza di anime occultate nella boscaglia. Virgilio lo stimola a spezzare un ramo acciocché quel sospetto svanisca (“li pensier c’hai si faran tutti monchi”, v. 30). “Cred’io ch’ei credette ch’io credesse” (esordio della nuova sezione con il famoso poliptoto a mutuare il linguaggio fin troppo bizantino e forbito del funzionario di corte che si va ad incontrare).
Dante esegue l’invito di Virgilio e stacca un ramo da un grande arbusto sgomentandosi dal grido che ne trae: “Perché mi schiante?” e dal fiotto di sangue marrone che ne sgorga. “Perché mi scerpi? / non hai tu spirto di pietade alcuno? / Uomini fummo, e or siam fatti sterpi” (vv. 35-37) cioè “perché mi laceri? Eravamo uomini e ora siamo piante, la tua mano dovrebbe aver maggior clemenza”. Dante si impaurisce e lascia immediatamente il ramo.
Anche nella immagine dell’albero sanguinante abbiamo ars allusiva con il III canto dell’Eneide, con l’episodio di  Polidoro: Enea, sbarcato sulle rive del mare di Tracia, si accinge a preparare un’ara e strappa dei rami da una pianta, ma dal legno sgorga sangue e fuoriescono le parole di Polidoro, l’ultimo nato di  Priamo, affidato al re di Tracia con un’ingente quantità d’oro all’atto dell’assedio di Troia. Polidoro ora è una pianta dopo esser stato ucciso dalle frecce di Polimestore che ambiva al suo oro. Polidoro invita Enea a scappare da quel sito maledetto. Al verso 48 Dante stesso riconosce di aver Virgilio come fonte, il suo duca ammette che quella scena Dante l’ha già vista nella “sua” rima.
Virgilio punta a scusare Dante che ignaro ha reciso il ramoscello. atto indispensabile per comprendere la pena di quei dannati; ma, per riparare al danno, l’anima sarà ricordarla tra i vivi ove ella riveli la propria identità.

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“Il racconto di Pier delle Vigne” ( vv. 55-78)

Il tronco, lusingato dalle parole di Virgilio, non tace e sperando di non annoiarli prova a ad invischiarli con i suoi discorsi: il tono della conversazione sarà da ora in poi prevalentemente artefatto, zeppo di rime difficili e figure retoriche.
L’anima si presenta: egli è colui che tenne entrambe le chiavi del cuore di Federico II,  il solo partecipe dei segreti del sovrano; il suo incarico fu svolto fedelmente rimettendoci sonno e vita; ma quella prostituta sempre presente nelle corti imperiali, l’invidia, lo perseguitò infiammando contro di lui tutti gli animi che a loro volta infiammarono l’Imperatore e gli onori divennero lutti. Il suo animo allora sdegnato rivolse contro se stesso l’ingiustizia e si dette la morte. Ma egli giura sulle nuove radici del suo legno e proclama la sua innocenza. Egli rivolge a entrambi una accorata preghiera: se uno di loro tornasse nel mondo dei vivi dovrebbe confortare in Terra la sua memoria, ancora divelta dal colpo infertole dall’invidia.

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“Spiegazione di come i suicidi si trasformino in piante” (vv. 79-108)

Stimolato da Dante, Virgilio prova a farsi spiegare da Pier Delle Vigne la modalità della trasformazione delle anime in piante ponendo apposito quesito se tale condanna si mostri irreversibile. Il tronco riprende a soffiare e il vento si trasforma in parole: ” Nel momento in cui l’anima del suicida si stacca dal corpo, Minosse la avvia al settimo cerchio ed essa cade nella selva a caso, dove la sorte la balestra e lì spunta un ramoscello che diventa in seguito un arbusto: le Arpie prendono a mangiarne le foglie procurando dolore che si manifesta in lamenti
Dopo il Giudizio universale, le loro anime trarranno i corpi nella foresta; i corpi verranno appesi ciascuno al suo tronco, senza mai riunirsi con esse, dato che non sarebbe giusto riottenere ciò che lor stessi si son tolti.

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“Gli scialacquatori” (vv. 109-129)

Mentre Virgilio e Dante attendono che il tronco prosegua la sua esegesi della situazione infernale cambio di scena ex abrupto. Rumori di caccia, come di un cinghiale inseguito da cani e cacciatori intento a fuggire rompendo attorno a sé la vegetazione circostante. Da mancina Dante osserva due anime ignude e graffiate in fuga attraverso il bosco svellendo rami dovunque. Quello più avanti invoca: “Or accorri, accorri morte!”, da intendere forse come nuovo decesso annullatore delle pene patite, mentre quello più dietro lo chiama, e rammenta a “Lano” che non era altrettanto rapido quando fuggiva dalle Giostre del Toppo dov’era morto in battaglia. Il secondo, stremato, si nasconde dietro un cespuglio, ma una torma di cagne nere sopraggiunge e lo fa a brani, portando via le sue membra dolenti.
Sono il senese Lano da Siena, forse già membro della brigata spendereccia e morto alle Giostre del Toppo, e Jacopo da Sant’Andrea, oggetto di numerosi aneddoti su come distrusse con leggerezza le sue proprietà. Due dissipatori dei loro beni.

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“Il suicida fiorentino” (vv. 130-151)

Dopo la parentesi della caccia Virgilio mostra a Dante il cespuglio dove si era riparato Jacopo che appare in lacrime a seguito delle ferite riportate durante l’assalto. La siepe sbraita contro Jacopo da Sant’Andrea (“Che t’è giovato di me far schermo? / Che colpa ho io della tua vita rea?”, vv. 134-135), e Virgilio lo sollecita a parlare di sé.
Il cespuglio prima supplica i due poeti di raccogliere le sue fronde e metterle ai suoi piedi dopodiché racconta di essere fiorentino con una lunga perifrasi: era della città che cambiò il primo patrono in San Giovanni Battista, accennando alla leggenda secondo cui l’antica Florentia romana fosse una città dedicata a Marte. Per questo motivo il primo patrono, dio della guerra e della discordia, adirato, la perseguita “con la sua arte”. Per fortuna che almeno rimane un frammento di statua collocato al passaggio sull’Arno, altrimenti coloro che la ricostruirono dopo la distruzione di Attila avrebbero lavorato invano. Il canto si chiude con un verso lapidario, l’unico sulla biografia del dannato: “Io fei gibetto a me de le mie case”, cioè “io feci la mia forca (gibetto è un francesismo da gibet) nelle mie case”, ovvero “mi impiccai in casa mia”.

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https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=_t-SUkAOe2k

 

 

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