Verga, critica letteraria, contenuti

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G. Verga, I ricordi del Capitano d’Arce, Treves, 1901, credit Antiche Curiosità©

 

Verga, critica letteraria, contenuti

Mary Blindflowers©

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Nel 1891 Giovanni Verga pubblica, presso Treves, I ricordi del capitano d’Arce, una delle raccolte di novelle più brutte di tutta la letteratura italiana. Inutile usare mezzi termini soltanto perché abbiamo a che fare con un nome, con un autore famoso celebratissimo che si studia a scuola come se fosse un oracolo.
La lunga novella che dà il titolo alla raccolta, I ricordi del capitano d’Arce, definita “la più artisticamente riuscita”1, è un’opera praticamente illeggibile per un lettore contemporaneo, ha il tono svenevole e lacrimoso dei peggiori romanzi della Invernizio, una trama banalissima e i dialoghi frammentari, di una semplicità disarmante che pretende pure di essere ammiccante. Come abbia fatto l’autore de Il ciclo dei vinti e de I Malavoglia, a scrivere un simile obbrobrio non si sa, ma di fatto ha concepito un libro pessimo che descrive una borghesia frivola, ipocritamente convenzionale anche nell’adulterio con uno stile che oggi sa veramente di stantio e ricorda romanzi sentimentali di quarta categoria in cui i personaggi maschili, affettati all’inverosimile, pigolano dichiarazioni amorose poi puntualmente smentite ma enunciate come se fossero sempre sull’orlo di uno svenimento di fronte al tema usurato della bellezza della donna:

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Voi mondana non immaginaste neppure ciò che poteva essere una vostra parola o un semplice gesto pel giovane selvaggio che vi arrivava da Zanzibar già innamorato e pauroso di voi, quanta avida e gelosa penetrazione fosse negli occhi che divoravano la vostra bellezza offerta alteramente, il sorriso noncurante col quale ne accoglievate l’omaggio, l’abbandono ch’era nel concedervi ai vostri ballerini, il suono della voce con cui parlavate ad Alvise – e in cui sentivo le dolci parole che gli avete dette – l’ebbrezza che provai io stesso la prima volta che mi deste del voi, quasi m’aveste già dato cosa della vostra persona. Vi rammentate? Quel giorno che sorprendeste quel lampo di follia e d’adorazione nei miei occhi, e vi faceste di porpora, odorando il mazzo di fiori che vi aveva mandato Casalengo, per coprirvene il seno?
… Oh struggersi e morire su quelle paplebre chiuse…

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Abbondano i particolari insignificanti, il regalo di un ventaglio, i movimenti della donna che sono come una carezza nell’immaginario dell’aspirante amante, i salottini borghesi in cui si concerta il tradimento come se fosse una missione di vita, l’etica della reputazione della donna disonesta che, finché è disonesta ma non ne ha fama, va bene, il male è la disonestà spiattellata, lo scandalo.
La scena in cui i due amanti vengono sorpresi, raggiunge i vertici del patetismo ottocentesco con un chiaro riferimento classista: i gentiluomini in certe circostanze perdono la ragione come i facchini:

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L’uscio sgangherato si spalancò a un tratto e apparve lui, il marito, Otello, cieco di rabbia e di gelosia… Ciò che allora accadde può ben immaginarsi; perché anche dei gentiluomini, in certe occasioni, perdendo il lume degli occhi tale e quale come dei semplici facchini… La povera donna che faceva sforzi disperati per svenirsi.

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Siamo ben lontani da quel “coro di parlanti popolari” per dirla con Leo Spitzer che anima le migliori opere verghiane. Qui i personaggi sembrano non avere anima, districandosi tra tradimenti e fatui divertimenti da salotto. Uomini e donne sembrano non avere altra occupazione che la chiacchiera e l’adulterio.
Non c’è introspezione psicologica, le figure sono terribilmente stereotipate.
Ginevra è una bella donnetta frivola che colleziona amanti come se fossero caramelle e non si stanca di guardarsi allo specchio; gli spasimanti sono altrettanto superficiali. Per ottenere le grazie della fascinosa donnina, si dichiarano e poi tradiscono mentre a sua volta anche lei tradisce in tutta libertà.
Tutta questa ostentata banalità mondana che tradisce la decadenza interiore dell’alta borghesia, la mancanza di profondità, la continua ostentazione di sentimenti fittizi in cui le parole non corrispondono agli atti, viene vissuta nei ricordi di un capitano di marina che ripercorre con la memoria le vicende sentimentali della moglie di un suo superiore.
Si obietterà che un’opera va valutata in base al contesto storico in cui è stata sviluppata, ma siamo già a fine ottocento. Oscar Wilde più o meno in quell’epoca scriveva grandiosi capolavori. Il Fantasma di Canterville infatti è del 1887 e Il ritratto di Dorian Gray del 1890. E si tratta di opere che sembrano scritte oggi.
Non ci sono scuse. Il capitano d’Arce mette in scena un Verga da dimenticare che la critica esalta soltanto perché ha un nome, e si sa, il nome val più del contenuto.
Scrive B.T. Sozzi: “I ricordi del Capitano d’Arce sono un’opera di lettura difficile, perché sono sotto il segno di una duplice ambiguità: ambiguità come plurisignificazione, artisticamente redditizia e meritoria… quello che lo scrittore ci trasmette è un messaggio arduo perché chiaramente plurisignificante”2.
Sembra uno scherzo e forse lo è. Il termine “redditizia” è comprensibile solo per chi lo ha partorito. Come si possono definire “plurisignificanti” dei racconti che anche un lettore alle prime armi potrebbe comprendere, con quei dialoghi all’acqua di rose e le trame da operetta? Come si fa a dire che si tratta di una lettura difficile, quando il periodare è semplicemente elementare?
Ma il critico, non sazio, continua:
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tale ambiguità riguarda principalmente l’identità psicologica ed etica dei personaggi, e si esplica attraverso l’ingegnosissima creazione di un linguaggio narrativo ricco di anfibologie, di scorci, di accenni, di frasi sospese, di reticenze di allusioni...3
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Peccato che quelle frasi rudimentali sospese, ben lungi dal rappresentare un pregio, siano un difetto evidente dell’opera. Non c’è in esse nessuna simbologia, nessun significato che vada oltre il detto, l’allusione sessuale è facilmente comprensibile, non ci vuole un esperto di letteratura per capirlo.
È sempre il nome che induce la critica letteraria a partorire montagne da spelacchiati topolini. Non si giudica il contenuto ma il nome di chi lo ha scritto, citando ovviamente sempre altri nomi d’accademica risonanza, per dare sostanza a fantasie rabberciate che rivelano una probabile mancata lettura.
Non si sa se ridere o se piangere di fronte a tanta inconsistenza e mancanza di obiettività nel giudizio di un testo.
La conclusione è che occorre sempre leggersi il testo originale e farsi un’idea propria, senza credere alle elucubrazioni dei critici che citano compulsivamente altri critici per costruire cattedrali nel deserto.

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Note.

1 “Ne I ricordi del capitano d’Arce… la novella prima è eponima dell’intera raccolta… la più artisticamente riuscita”, B. Tommaso Sozzi, Italianistica: Rivista di letteratura italiana Vol. 11, No. 1 (GENNAIO/APRILE 1982), pp. 71-82.

2 Ivi, p. 72

3 Ibidem.

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https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=4SIpeNws5JQ

 

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