Grazia Deledda, L’incendio nell’oliveto

Grazia Deledda, L'incendio nell'oliveto

Grazia Deledda, L’incendio nell’oliveto

Grazia Deledda, L'incendio nell'oliveto

Grazia Deledda, L’incendio nell’oliveto, Treves, 1921, credit Antiche Curiosità©

 

Grazia Deledda, L’incendio nell’oliveto

Mary Blindflowers©

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Grazia Deledda, L’incendio nell’oliveto, pubblicato a puntate sul Corriere della sera tra il 1917 e 1918 e poi ripubblicato sempre nel 1918 coi tipi dei Fratelli Treves, segna, rispetto a Canne al vento (1913), un deciso peggioramento stilistico. Il romanzo non rinuncia ai temi classici dell’arte deleddiana: l’amore per “la roba”; i matrimoni combinati per accrescere il patrimonio della famiglia; l’onore; la distinzione in classi sociali: “padroni, con padroni, servi con servi”; un fatalismo e un immobilismo che domina le coscienze, assieme ad una religione paganeggiante che sa di esoterismo magico.
La famiglia Marini si stringe attorno alla matriarca, Agostina, che tutto vede e tutto decide, essendo il perno attorno a cui ruotano, come satelliti, gli altri personaggi, figli e nipoti ipnotizzati dalla sua inflessibile volontà:

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Dalla scranna antica che il lungo uso aveva sfondato e sbiadito, era ancora lei, la nonna Agostina Marini, quasi ottantenne e impotente a muoversi, che dominava sulla casa e sulla famiglia come una vecchia regina dal trono. Non le mancava neppure lo scettro: una canna pulita che il nipotino più piccolo aveva cura di rinnovare ogni tanto…

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L’unico personaggio che spezza lo schema tradizionale dell’ubbidienza assoluta alla matriarca e del calcolo interessato è Juanniccu che molta critica stigmatizza come semplice sfaccendato e che invece è il gap positivo della storia perché ha il coraggio di dire quello che gli altri sanno ma viene costantemente taciuto per paura. Juanniccu si ribella anarchicamente alle convenzioni sociali e non capisce la mentalità retrograda della famiglia. Egli pronuncia parole impensabili che suscitano scandalo perché sono vere e soprattutto sottolinea la parità dei sessi in una fragilità che accomuna tutto il genere umano, senza distinzioni:

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Ecco, io dico, a mio parere, che bisognerebbe lasciar fare a ciascuno quello che vuole. Tanto è lo stesso; quello che si vuol fare si fa. La donna è fragile e anche l’uomo. Siamo tutti fragili. Non importa nulla, neppure la coscienza che è nulla anch’essa. Si vive, si muore; si fanno tanti sforzi per riuscire a questo, per privarci di quello, e poi si muore. E se quei due ragazzi si vogliono amare e si vogliono sposare, perché volete voi impedirlo? E lasciate che si amino, lasciate che si sposino… non c’è da offendersi per la verità. Mi offendo io quando mi dite che sono pazzo?

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Ma in una società schiava della convenzione non si può dire la verità e passarla liscia. La trama è impietosa con questo personaggio evoluto, giudicato anacronistico e scandaloso. Le poche volte che Juanniccu parla un po’ più a lungo, di sua iniziativa, lo fa in italiano, senza sardismi che invece punteggiano i radi dialoghi che egli ha con la nonna, costruiti fastidiosamente “alla sarda”, posponendo continuamente il verbo e dando alle frasi un sapore innaturale e un po’ comico, per via della frequenza di tale posposizione:

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Stato sei dai mura? – domandò sottovoce.
Stato sono: la donna se ne va.

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Il fatto che i sardismi si accentuino quando anche i vari personaggi e non solo Juanniccu, parlano con la nonna, mentre quando fanno considerazioni più lunghe, quasi spariscano, dà una certa incoerenza all’insieme. Sarebbe stato meglio rendere i dialoghi lampo direttamente in sardo, apponendo magari una nota per il lettore. Riesce infatti difficile immaginare una matriarca ottantenne degli inizi del Novecento che parla in italiano con la serva, coi figli e coi nipoti.

Ci sono belle descrizioni del paesaggio che però non raggiungono le vette liriche di Canne al vento. C’è sempre un fondo occulto-misterioso che fa da sottofondo alla storia, con quei morti che ritornano nei racconti dei vivi, immersi in un misticismo ingenuo e primitivo:

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Io ho sentito raccontare una volta, da una zia vecchia, che prima di andarsene i morti passano a far visita ai loro parenti. Sì, questa zia vecchia dice che stava una sera accanto al fuoco, ed ecco viene a trovarla un suo cugino… l’indomani viene a sapere che il cugino era morto quella stessa notte…

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Quando il futuro sposo di Mikedda, la serva, va a parlare con Agostina per informarsi se la ragazza sa fare le faccende domestiche, e quindi sia degna di essere sposata, viene evidenziata in pochi passi la condizione della donna dell’epoca. Agostina è un capo soltanto perché il marito è morto e lo ha sostituito nelle sue funzioni. La donna altrimenti avrebbe dovuto rassegnarsi alle decisioni dell’uomo.
Si apre un mondo arcaico e triste in cui i personaggi spesso sono causa della propria disgrazia perché incapaci di vera evoluzione.
L’incendio nell’oliveto affronta molti temi e si legge bene. Non è il capolavoro della Deledda, lo stile è più incerto, i personaggi meno caratterizzati rispetto ad un Efix, il loro tormento è reso in modo meno viscerale, più stereotipato, tuttavia rimane un romanzo la cui lettura, a distanza di così tanti anni, non delude.

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https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=PvwqSMRtoSI

 

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