Luis Landero, Giochi tardivi, l’inutilità

Luis Landero, Giochi tardivi

Luis Landero, Giochi tardivi, l’inutilità

 

Luis Landero, Giochi tardivi

Luis Landero, Giochi tardivi, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Giochi tardivi

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Luis Landero, Giochi tardivi, pubblicato in Italia da Feltrinelli. Trama accattivante in quarta di copertina, indagine sull’isolamento psicologico dell’uomo contemporaneo.  Il romanzo sembra avere velleità kafkiane fin dalla scelta del nome del protagonista Gregorio, Gregor che rievoca in modo esplicito il Samsa delle Metamorfosi. Un uomo qualunque, di scialba mediocrità, quello che oggi chiameremmo nerd, allevato e istruito a leggere voci enciclopediche da uno zio che impazzisce progressivamente. Il nostro “eroe” si trasforma col tempo in un mitico personaggio fittizio, Augusto Faroni, grande amatore e rivoluzionario. Una sorta di second life che porta il lettore alla riflessione sull’essere, il non essere, il reale, l’irreale. Tutto molto profondo. L’unico problema di questo romanzo è che Landero, purtroppo, nonostante la critica abbia sostenuto il contrario con accostamenti piuttosto arditi quanto improbabili, non è affatto Kafka e non lo sarà mai, nemmeno tra un milione di anni e non occorre nemmeno essere un esperto di letteratura per capirlo fin dalle prime pagine. Il suo stile è lontano anni luce da quello di Kafka che non si impelaga in viziosi loop espressivi attraverso periodi lunghi e contorti, descrizioni da certosino o da entomologo in vacanza. Landero è incredibilmente pesante, tant’è che è difficile arrivare fino in fondo alla lettura. Ci vuole costanza, determinazione e una buona dose di masochismo per leggerlo senza innervosirsi. Lo stile è baroccamente intellettualistico, infarcito all’inverosimile di particolari del tutto inutili che finiscono con il tediare irrimediabilmente il lettore. La minuzia con cui si descrive ogni più piccolo gesto come se fosse significativo, mentre nell’economia della storia, è puramente accessorio, fa venire voglia di scagliare il libro fuori dalla finestra.
Ecco la prosa di Kafka:

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Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
«Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d’abitazione, anche se un po’ piccola, gli appariva in luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di telerie svolto da un pacco (Samsa faceva il commesso viaggiatore), stava appesa un’illustrazione che aveva ritagliata qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l’intero avambraccio.
Gregor girò gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo – si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale – si sentì invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un’altra dormitina?» pensò, ma non potè mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli era impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta ripiombava indietro supino. Tentò almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto smise perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima cominciò a pungergli il fianco... (Le metamorfosi e altri racconti, a cura di Patrizio Sanasi, Edizione Acrobat).

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Ora vediamo Landero:

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L’amore lo rese saggio. Acquisì conoscenze impreviste: imparò per esempio a predire l’esatto istante del tramonto in cui un passero si sarebbe posato sull’acacia, seppe che in un determinato muro di una determinata strada, in una fessurina, una lucertola aveva il suo nascondiglio, che in un punto del parco che lui solo conosceva c’era un fiore di undici petali, e, su un tronco di cipresso, alcune iniziali il cui significato nessuno avrebbe mai decifrato… Non c’era uccello senza buono o cattivo indizio, né nube che non lasciasse al passaggio un segno infausto o propizio. Amore e Morte fu il suo lemma, o meglio, il suo dilemma insolubile.
In quei giorni acquisì la mania di chiudere gli occhi, arricciare il naso e contare fino a quattro con il pensiero e con le mandibole: un breve e frenetico tic che lo lasciava indifeso e appeso in aria come un coniglio appena tolto dal paniere, e con il quale scongiurava gli attacchi della realtà. Leggeva nell’aria il pronostico della speranza, ma poco dopo cadeva una foglia e ciò significava che la sua sorte era irrimediabilmente segnata… E poi si succedettero gli anni dilatati, tanto ammucchiati nel ricordo della monotonia, tanto maltrattati dall’oblio, che riuscì solo a ricordarsi di quando aggiustava l’orologio col coltello multiuso o se ne stava affacciato al balcone con le caviglie a squadra e l’espressione da navigante, guardando passare nubi e scoprendo in esse i loro messaggi segreti. Non perse mai la virtù di vedere figure nelle nubi. Da bambino, quando a scuola raccontavano le battaglie tra romani e cartaginesi o le imprese di Sansone, lui guardava il cielo e le vedeva lì rappresentate, con tanti particolari e tale realismo che le interpretava come visioni che gli mandava Dio per premiare la sua devozione, e che solo a lui fosse riservato quel prodigio, finché il carattere equivoco di alcune scene gli fece capire che si dovevano piuttosto alla sua capacità di vedere nelle nuvole tutto ciò che voleva… (Giochi tardivi, Feltrinelli).

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Kafka è essenziale, profondo e diretto, innesta lo straordinario all’ordinario in modo chirurgico, preciso, periodi brevi, dialoghi lampo. Non ci dice niente di inutile. Landero con periodi a volte straziantemente lunghi, ci riempie di particolari che con tono intellettualistico di prolissa matrice pseudo-filosofica, ci trasportano nel regno dell’osservazione di un micromondo interiore ed esteriore, o di ricordi infantili che però rimangono sostanzialmente fini a se stessi, avendo come unico risultato letterario, una noia indicibile per il povero lettore. Che senso ha ricamare parole e parole sulle nubi e attaccare una digressione inerte sulla capacità del personaggio di immaginare forme nelle nuvole? L’atto banalissimo viene immaginato come speciale e ripetuto in frasi lunghissime e perlopiù senza senso. Ma a che scopo? Gli arzigogoli descrittivi non hanno finalità importanti ai fini della trama, tentano malamente di elevare a livello filosofico gesti e ricordi banali che, nell’intenzione dell’autore dovrebbero esaltare il mondo degli invisibili, dei mediocri, ma di fatto non creano tensione e si annacquano in una scrittura piatta e terribilmente lineare. La suspence manca del tutto. Landero non ha la capacità di creare curiosità nel lettore. Inoltre è completamente privo di ironia.
Eppure questo autore viene definito “uno scrittore perfetto” da accademici e critici, anche se sporca ben 383 pagine per dire le stesse cose che avrebbe potuto dirci tranquillamente in un centinaio di pagine e forse anche meno. Alcuni lo hanno addirittura paragonato a Cervantes perché capace di raccontare i drammi dell’uomo comune elevandoli a letteratura.
Forse è meglio non scomodare Kafka e Cervantes per così poco.
Dove sta scritto che un testo per essere letterario deve farci addormentare?

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