G. Deledda, La via del male

G. Deledda, La via del male, Nuova Antologia, 1906

G. Deledda, La via del male

G. Deledda, La via del male, Nuova Antologia, 1906

G. Deledda, La via del male, Nuova Antologia, 1906, credit Antiche Curiosità©

Mary Blindflowers©

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Grazia Deledda, La via del male, pubblicato per la prima volta nel 1896 da Speirani & Figli, editore torinese, riproposto con un altro titolo: Il servo, dalla Gazzetta del Popolo di Torino del 1906 e pubblicato nello stesso anno dalla Nuova Antologia, in un’edizione ormai rara.
Il libro poi ha avuto innumerevoli edizioni successive e viene costantemente ristampato.
Si tratta di un romanzo suggestivo ma non privo di difetti. I temi che affronta sono quelli tipici di tutta la produzione deleddiana: le differenze sociali, il mito della ricchezza con cui acquisire rispetto agli occhi della gente, la vendetta, l’omertà, il senso di colpa, l’espiazione, la morte, tutti elementi innestati dentro la cornice di una Sardegna arcaica e chiusa in cui il paesaggio, descritto a tinte vivaci, fa da sfondo alla narrazione assieme alla descrizione dei costumi tipici e delle tradizioni locali.
L’inizio è decisamente lento, eccessivamente descrittivo, ha quel gusto un po’ barocco per l’eccesso, senza raggiungere le vette liriche di Canne al vento che tra i romanzi della Deledda è il migliore, perché le descrizioni sebbene lunghe, sono in accordo con l’anima dei personaggi e animate da un sottofondo magico che colpisce potentemente l’immaginazione. In La via del male la lezione verista si fa sentire più forte, ma non possiede ancora quel fervore esoterico così ben riuscito  in romanzi più tardi. La via del male è un romanzo non completamente maturo dal punto di vista stilistico. A metà libro la vicenda si anima, il ritmo diventa più veloce, meno cadenzato, gli avvenimenti precipitano.
Il problema principale di questo romanzo resta però la prevedibilità. L’autrice suggerisce al lettore quello che accadrà attraverso una tecnica anticipatoria che  finisce col far capire il finale, guastando l’effetto sorpresa.
La vicenda è piuttosto semplice. Pietro Benu è servo dei ricchi Noina e inizialmente attratto dalla giovane Sabina, finisce con l’innamorarsi di Maria Noina. Un amore impossibile data la distanza sociale tra i due giovani. Maria e l’altezzosa Luisa, sua madre, non mancheranno di ricordare a Pietro la sua condizione di servo. Maria e Pietro si incontrano tuttavia in segreto. Maria promette di aspettare che Pietro migliori le sue sorti economiche ma finisce con lo sposare per convenienza un ricco proprietario terriero, Francesco Rosana, brutto, ma ricco. Pietro finisce in prigione per una falsa accusa di furto di bestiame e in carcere impara a scrivere e conosce Antine che lo convincerà a seguire la via del male per ottenere ciò che vuole nella vita.
Le descrizioni dei protagonisti sono piuttosto stereotipate. La bellezza di Sabina e di Maria espresse attraverso un verismo un po’ ingenuo. Lo stesso dicasi per Pietro. Lo schema è di una semplicità imbarazzante per i personaggi maschili: ricco-brutto, bello-povero. Le donne-belle sono sempre schiave dei condizionamenti sociali e tra amore e interesse scelgono invariabilmente la seconda strada.
La prevedibilità dell’azione di Sabina fa sorridere un poco il lettore. Perché dirgli in anticipo che Sabina si sarebbe vendicata? Lo stesso vale anche per Pietro. Perché dire prima che gli eventi precipitino che Pietro covava vendetta e che non si sarebbe rassegnato alla sconfitta? Così dopo il matrimonio di Maria con Francesco, il lettore intuisce già tutto e la trama diventa un déjà-vu, qualcosa di preannunciato. L’autrice attarda il momento della scoperta del motivo dell’assenza improvvisa di Francesco, per creare suspense, ma è operazione ormai inutile perché il lettore ha capito tutto prima che il romanzo ci dica cosa sia successo.
Un altro difetto della letteratura del “tipico” è che si ripete. Le descrizioni delle feste, oppure degli usi e dei costumi, si ritrovano in tutti i romanzi della Deledda. Anche i temi che percorrono la narrativa deleddiana sono sempre gli stessi. Gli ambienti non mutano, le passioni si ripetono identiche in personaggi dai nomi diversi. Cambiano le trame ma non il movente dell’azione che è la vendetta o l’amore.

Nella Motivazione del Premio Nobel 1926 letta all’Accademia di Stoccolma dal Prof. Schuch si legge:

Nel romanzo La via del male Grazia Deledda descrive nello stesso modo vivace le strane costumanze sarde in occasione di nozze e di funerali. Quando ha luogo un funerale, si chiudono tutti gli usci, si serrano tutte le imposte delle finestre, ogni fuoco si spegne, non è permesso di preparare alcun cibo, e le prefiche piagnucolano le loro nenie improvvisate: tutto vi è dipinto così al vivo e in un modo tanto semplice e naturale che, richiamandoci alla immaginazione i costumi primitivi, quasi ci muoverebbe a dire: è una scena omerica. Nei romanzi di Grazia Deledda, più che nella maggior parte di quelli di altri autori, uomini e natura formano come un solo tutto. Quasi si direbbe che gli uomini siano piante germogliate dal suolo stesso della Sardegna. La massima parte sono gente del popolo, semplici, di un modo di pensare e di sentire primitivo, con qualche cosa in sé della grandiosità della natura sarda. Parecchi di loro hanno quasi la impronta di figure monumentali del Vecchio Testamento e, quantunque si distacchino di tanto dai tipi d’uomini conosciuti da noi, ci danno la impressione di essere incontestabilmente veri e tolti dalla vita reale. Non sono niente affatto fantocci da teatro, e Grazia Deledda sa bene l’arte di congiungere in modo eccellente realismo e idealismo (G. Deledda, Cosima, Fratelli Treves, 1937 in Appendice, pp. 190-191.)

In effetti le scene delle prefiche che piangono il morto e che ricordano l’indagine di Ernesto de Martino in Morte e pianto rituale, dal lamento funebre antico al pianto di Maria, sono realistiche e ben costruite. Le descrizioni del matrimonio sardo, e della mentalità primitiva del popolo, con l’identificazione valore uguale-denaro e il calcolo di interesse alla base delle unioni matrimoniali, rappresentano la parte “documentaristica” che ti ammalia col tipico di un mondo primitivo e dà la netta sensazione di trasportarti in un universo parallelo.
La trama però poteva essere sviluppata decisamente meglio evitando ingenuità prevedibili e insistenti descrizioni del paesaggio che a volte infastidiscono perché non necessarie e caricano troppo il testo di barocchismi non funzionali.
Si deve aspettare il 1913, anno della pubblicazione di Canne al vento, per vedere la piena maturità dello stile deleddiano.

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https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=vGDvcccvqv8

 

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