Murakami Haruki, L’elefante scomparso

Murakami Haruki, L'elefante scomparso

Murakami Haruki, L’elefante scomparso

Murakami Haruki, L'elefante scomparso

Murakami Haruki, L’elefante scomparso, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Murakami Haruki, L’elefante scomparso

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Murakami Haruki, “L’elefante scomparso e altri racconti” pubblicati in Italia da Einaudi.
Murakami vende, si legge bene infatti, scorrevole, pratico, sintetico. Murakami tuttavia ha qualcosa che mi disturba.
Non è lo stile elementare, costruito con frasette semplici, con descrizioni banalmente stereotipate di cui potrebbe tranquillamente fare a meno, con ripetizioni inutili, a darmi noia.
Non è nemmeno l’incoerenza della sua scrittura che salta continuamente di palo in frasca, cercando poi in modo non sempre felice, di riannodare i fili per dare un senso che logico non è, a tediarmi mentre lo leggo. Anche perché non sono amica di una logica stringente che val bene per i burocrati e non per la letteratura. L’illogico mi piace se usato come si deve.
Eppure qualcosa mi disturba.
Non è nemmeno la questione volutamente aperta che lascia in molti finali dei suoi racconti, come in “La lenta nave per la Cina” o “L’elefante scomparso“, a farmi dire mah, perché in fondo l’irrisolto mi piace, un racconto che incita a porti domande forse è meglio di uno che ti spinge ad ottenere risposte che non esistono. Non è compito di chi scrive dare soluzioni universali, servirti su un piatto la quadratura del cerchio.
Però mentre leggo la raccolta di racconti di quest’autore sento un vago senso di fastidio, c’è qualcosa che mi fa dire no, non mi convince del tutto.
Non è nemmeno la smaccata e quasi infantile ingenuità di certe situazioni ridicole come quella del secondo racconto, “Il nano ballerino” in cui l’amato oggetto del desiderio del protagonista posseduto da un nano diabolico, si trasforma all’improvviso in un brulicante ammasso di vermi e immagini da film horror di quinta categoria.
Non è poi quel compiacimento tutto commerciale nel descrivere pus, vermi che escono dalle narici, mascella che casca e altre amenità da asilo nido che mi induce a dire ancora mah, eppure qualcosa dev’essere.
Le trame?
Sì, certo se le si sintetizza si riducono a banalità che fanno pure un poco ridere. Ma non necessariamente una trama dev’essere geniale. Esistono anche romanzi e racconti senza trame. Non tutti sono Oscar Wilde, non tutti possono essere geniali.
No, alla fine nemmeno la trama banalissima del maledetto nano ballerino che pesta e ripesta il tema della possessione tra effetti scontati e un realismo magico di marca scadente, mi ha indirizzata al no. Nemmeno le estemporanee domande banali de “Il messaggio del canguro”, francamente delirante, spinto su improbabili associazioni tra una lei e dei canguri che sembrano concepiti da una mente drogata, mi hanno fatto girare sulla sedia o buttare il libro.
E ho continuato la lettura perché come ho detto, Murakami si legge bene, non è banalmente scarso come Coelho che si fionda nel secchio dopo venti pagine perché è talmente inutile che ti fa dar di stomaco e bestemmiare per la morte dei poveri alberi, no, lo scrittore giapponese ha un suo innegabile appeal.

Poi capisco.

Non è quello che c’è a disturbarmi più di tanto ma proprio quello che non c’è e che non si sottintende realmente ma si finge soltanto di sottintendere. Non è l’errore o la pochezza del linguaggio a farmi dire da comune lettore, no, no e no! Invece è l’assenza di quel quid inespresso che l’autore vuol fingere ci sia, friggendo l’aria e spacciandola per alta cucina.
Ed è il suo continuo, estenuante fingere che ci sia il pieno e un piano parallelo di riflessione che in realtà non c’è, che non mi piace. Le domande che pone sono distrattive, non nascondono nessuna vera filosofia, hanno il solo scopo di creare estraniamento dal reale, ma questo procedimento non nasconde una meta più alta.
Di Murakami mi innervosisce la furbizia, che sicuramente, dato l’elevatissimo numero di copie vendute, funziona, del resto tutto funziona con il marketing. Il capitalismo è in grado di venderci qualsiasi cosa voglia, convincendoci che sia indispensabile per le nostre vite.
Quando inizi a leggere un suo racconto, Murakami è così furbo da riuscire a farti credere che stia dicendo qualcosa, qualcosa di importante che forse capirai alla fine, ti dici, mentre scorri le pagine. Ripeti a te stessa che le domande oziose che pone avranno pure uno scopo, poi scopri che no, non ne hanno affatto, girano soltanto e semplicemente su se stesse, sono un trucchetto.
L’autore usa bene la suspense, questo è un suo pregio, inoltre con quelle sue frasette semplici ma fintamente criptiche, con associazioni apparentemente e realmente casuali tra oggetti diversi, non ti complica la vita ma ti inganna, così tu povero lettore ingenuo, ti illudi, ti illudi che voglia comunicare delle profondità che non ti dirà mai, e alla fine rimani come il corvo della famosa favola di Esopo che ha aperto la bocca di fronte agli abboccamenti della volpe, lasciando cadere il formaggio nelle sue fauci.
Il formaggio cade, il cibo non sazia il lettore ma solo l’autore che vende la sua copia replicata all’infinito, il trucco dopo poco si svela, il re è nudo. Lo stile si ripete, le frasi anche, la tecnica è sempre la stessa, straniamento innestato su elementi di vita quotidiana, domande oziose, associazioni inutili, questione più o meno aperta, trama elementare condita qua e là da un poco di horror o di finto mistero, ripetizione di gesti banali e poi di nuovo straniamento, domande oziose, associazioni inutili, etc.
Mi diventa pesante nella sua leggerezza posticcia da pseudo-zen contemporaneo. Poi subentra la noia esattamente come quando capisci dove il prestigiatore nasconde le colombe bianche e i fazzoletti colorati. Hai capito il trucco e perdi il gusto della meraviglia.
La furbizia non è sufficiente, almeno per me. Mi lascia un senso di insoddisfazione, perché si avverte che Murakami che finge kafkiani orizzonti, non è Kafka. Murakami scrive soltanto per farsi leggere e non per scrivere e dire qualcosa.

Murakami è un prestigiatore.

Manca un fine profondo in questi suoi racconti, un oltre, quello spazio bianco tra le righe rimane inerte e bianco e non nasconde nulla, fa solo finta che ci sia un mistero ma il mistero è che non c’è nessun mistero.
Tutto quello che leggi è soltanto illusione da circo, non si tratta di una vera finzione letteraria ma di un fumo fittizio, che dietro lo stile semplice, nasconde la trappola del business.
Il realismo magico che Murakami usa nelle sue storie è fine a se stesso, serve per creare un effetto “cinematografico” che però ha il vile difetto di non condurre ad un significato ulteriore o di indirizzare ad un esito di superficie e la letteratura non è mai superficie.
Il problema resta quello eterno dell’essere contro l’apparire.
Credete veramente che l’elefante sia scomparso?
La questione è assolutamente priva di importanza.

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

 

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