Manlio Sgalambro, Trattato dell’età

Manlio Sgalambro, Trattato dell'età

Manlio Sgalambro, Trattato dell’età

Manlio Sgalambro, Trattato sull'età

Manlio Sgalambro, Trattato dell’età, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

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Manlio Sgalambro, Trattato dell’età

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Manlio Sgalambro, Trattato dell’età, scritto da un filosofo coltissimo che fu anche cantautore non privo di sottile ironia e sagacia.
Testo, a dirla tutta, un poco sgranato nella composizione di base citazionista, ma gradevolissimo nell’impianto stilistico, nella scorrevolezza di frasi che hanno, a tratti, la lapidaria compostezza di aforismi su grandi temi universali: il matrimonio, il tempo umano e cosmico, la morte e l’essenza, l’estraneità umana di fronte alla propria definitiva dipartita dal mondo e, naturalmente, l’età, la vecchiaia. Un libro ricco di immagini, di spunti, che però cela un inganno voluto fin dal titolo. Non si tratta di un trattato sull’età puro e semplice, non è una dissertazione sul tempo umano soltanto, ma molto di più. L’età è un pretesto, il tempo della filosofia non è quello dei tortincollo, ma un punto di partenza per esplicitare una polemica sottile contro le basi teologiche di certe convenzioni doc e contro la dinamica sacramental-dogmatica della società occidentale. Il citazionismo sgalambriano che tradisce la sua cultura di fondo, non è fine a se stesso ma si collega al suo impianto polemico che emerge in tutta la sua cruda evidenza quando, per esempio, l’autore parla del matrimonio, che non ha valore nella durata, come ha scritto qualche recensore ingenuo. La parola valore non viene nemmeno nominata da Sgalambro, egli parla di sfida alla durata che esclude l’amore o comunque lo rende non necessario alla sostanza matrimoniale. Il filosofo scalza alla base l’identificazione matrimonio-amore, attraverso un gioco sottile di riferimenti dotti che sono la base per dirci, il matrimonio è soltanto teologia, come del resto poteva essere altrimenti? Il matrimonio e l’amore si escludono a vicenda, laddove la durata attiene ad una sfera teologico-morale che con il mistero, l’unico degno di delineare la dinamica dell’amore, nulla ha a che fare. Ciò che nel matrimonio fa dei due uno non è l’amore ma la teologia, ce lo dice chiaramente in modo lucidissimo:

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l’amore non è necessario al matrimonio, tant’è che il matrimonio vero e proprio entra in azione dopo che l’amore è finito. Noi non ci amiamo più, dicono entrambi, ma resta il matrimonio. Ora finalmente siamo sposati… l’amore passa, il matrimonio resta… in assoluto il matrimonio appartiene alla teologia”.

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C’è la celebrazione del mistero profondo che, con buona pace dei cattolici, esula dal sacramento e non esclude i gesti quotidiani, anzi, questi veicolano il senso stesso dell’amore, in modo che la materia si presti ad una quanto mai efficace movimentazione metafisica:

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una fugace stretta di mano che duri qualche secondo in più, una carezza degli occhi che sembri solo uno sguardo distratto e invece è intima e calda. Amano il mistero di quello che vi è tra di loro…”.

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Ma tutto questo movimento, questa sensazione arcana oltre la sensazione stessa, è altro rispetto alla prosaica lega matrimonio-teologia. Quest’ultimo diventa così connubio artificiale extra-amoroso.
Nelle riflessioni sulla morte affiora  l'”epicureismo” sgalambriano del quando la morte non c’è noi ci siamo e quando c’è la morte non ci siamo noi. La morte è infatti un evento pubblico non privato, perché non riguarda chi muore, ma al contrario chi vive. E chi vive che può dire di un altro: è morto, ma chi muore non può dire di se stesso “sono morto”, essendo, appunto, morto:

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Quando cerco di immaginarmi la mia morte non posso farlo, perché a immaginarla sono io, e perciò tutto mi dà l’impressione di un buffo gioco, in quanto io sono vivo…

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Sgalambro cita poi molto opportunamente Schopenhauer, parlando del diritto di interrogarsi circa l’evidenza della morte, criticandone però le conclusioni. La morte non è la cosa più fantastica del mondo, perché questo assioma darebbe l’illusione dell’indistruttibilità del nostro essere in sé, mentre non abbiamo alcuna certezza della nostra indistruttibilità:

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ho solo la certezza che quando mi riferisco alla mia morte sono vivo, e quindi non posso vivermi come morto”.

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Siamo in pieno epicureismo e in prospettiva antidogmatica.

Però Epicuro non è nominato, perché?

Forse perché Sgalambro si propone di superarlo credendo nella reincarnazione?  Battiato: “Ho sentito un frate che crede nella reincarnazione, ma anche il mio amico Manlio Sgalambro, ateo solo per restare fedele alla sua filosofia”. La reincarnazione tuttavia introduce un elemento contraddittorio. La morte come “balla” è solo un fatto che riguarda altri e non noi, non possiamo dire nulla intorno alla nostra morte da morti, giusto, ma tutto questo dà la misura di una certa non-esistenza post mortem che però viene negata dalla reincarnazione che è, a suo modo, una forma d’esistere e persistere ancora. Se non c’è prova di indistruttibilità (ce lo dice lo stesso Sgalambro), anche la reincarnazione è una questione di fede perché la metempsicosi non può essere provata in alcun modo. E allora come si risolve la faccenda? Il filosofo svicola, aggira l’ostacolo e preferisce parlare di amortalità ragionata:

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“la morte non mi riguarda… muoio solo per un altro… La mia morte non esiste… è fantasiosa come in un racconto di fate, visto che non la posso percepire e non posso averne alcuna evidenza. La morte è una balla… Muoiono gli altri non io… il resto lo so dagli altri. Ciò mi basta per affermare l’amortalità, che a sua volta mi basta”.

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Il risolvere tutto nell’amortalità forse è il limite del libro. L’amortalità alla fine non spiega nulla, i misteri restano tali. Del resto chi può veramente spiegare qualcosa a questo mondo? La filosofia si ferma di fronte alla grandezza del mistero a cui Sgalambro, come si è detto, attribuisce grande significato: “Solo l’amore circondato dal mistero può durare a lungo”.

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Il trattato sull’età è un libro potentemente polemico. Esalta il mistero che è anche vecchiaia, con l’aria di parlar dell’età. Introduce il lettore in un mare di riflessioni polisemantiche che sfociano nel disincanto: “chi volesse seriamente indagare la funzione del tempo, perderebbe il suo tempo“.
Come non cogliere poi un forte disprezzo per la psicologia, definita senza mezzi termini, “scienza inferiore”? È lì che l’autore colloca il matrimonio e la classificazione schematica delle età della vita, in quella psicologia che cataloga e sintetizza minimizzando dentro un punto di vista limitante, “il più basso che si possa avere sull’uomo e il suo fato”.
Oltre le apparenze, il fertile e insistente garbato polemizzare credo sia il miglior pregio del libro, al di là degli aspetti contraddittori del pensiero sgalambriano. In fondo chi non è capace di generare contraddizioni, non è nemmeno in grado di pensare, attività a cui occorre dare sempre la priorità.

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https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=GnfMPFwCNp4

 

 

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