Invidia, pseudo-intellettuali e potere

Invidia, pseudo-intellettuali e potere

Invidia, pseudo-intellettuali e potere

Invidia, pseudo-intellettuali e potere

Il principio di autorità, credit Mary Blindflowers©

 

Invidia, pseudo-intellettuali e potere

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Mary Blindflowers©

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Fu il sangue mio d’invidia sì riarso, / che se veduto avesse uom farsi lieto, / visto m’avresti di livore sparso (Purgatorio, XIV, 82); d’invidia sì che già trabocca il sacco (Inferno, VI, 50); E come a li orbi non approda il sole,/ così a l’ombre quivi, ond’io parlo ora,/ luce del ciel di sé largir non vole; (v. 69)/ ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra/ e cusce sì, come a sparvier selvaggio/si fa però che queto non dimora (Purgatorio, XIII, v. 69-72).
Gli invidiosi in Dante, scontano la loro pena nel Purgatorio, nella Cornice dal pavimento di terra livida. Hanno gli occhi cuciti da filo di ferro che impedisce loro di vedere il mondo mentre recitano le litanie dei santi, invocando gli angeli. Indossano un mantello di panno ruvido e pungente.
L’invidia, secondo dei sette vizi capitali, è una malattia dalla fenomenologia assai complessa la cui lunga ombra sembra talvolta disegnare contorni arbitrariamente costruiti, che spesso non le appartengono nemmeno, data l’illusorietà con cui spesso si giudica l’altro, relegandolo nella cornice invidiosi, non appena attui un meccanismo di ragionamento autonomo e soprattutto svincolato dalla preconcetta ideologia politica. Si sa molto bene che oltre un certo limite invalicabile per tradizione imposta, i pareri personali, se lesivi della fondamentale legge monopolizzante del potere, vengono percepiti come invidia dagli spiriti mediocri. Si finisce così con il fare abortire completamente il dialogo, a favore di un appiattimento pseudo-filosofico che premia l’inconsistenza e il servilismo. Il coraggio di dire la propria non è valutato positivamente. Si allevano generazioni di polli da batteria a beccare il mangime che viene loro dato, senza lamentarsi, perché quel mangime è buono, saporito e nutritivo e a nessun pollo si concede il diritto di non gradire il becchime che gli viene concesso. Il pollo che rifiuta il cibo perché ha un cervello autonomo, viene automaticamente bollato come invidioso. Se quel pollo è una persona persa tra milioni di altri polli, sarà considerato un disadattato, uno che vive ai margini del buonsenso e della ragione comune. Questa emarginazione sociale funge da monito, un po’ come durante l’epoca dell’inquisizione, quando si esponevano i cadaveri dei condannati a morte come deterrente, “ecco, vedete che bella fine si fa quando si trasgredisce la legge dei padri?” Era facile essere condannati per una parola o una frase spontanea a quell’epoca, come il brav’uomo che nella novella boccaccesca beve del vino e dice, di cuore, senza malizia, “è così buono che ne berrebbe anche Cristo” (VI, I). Un frate minore avido lo sente, lo denuncia all’inquisizione, gli istruisce un processo e il brav’uomo si salva dal rogo solo dopo essere stato privato di molto del suo e aver appagato l’avida superbia del religioso al quale assesta una finale stoccata verbale:

 

“Messere – rispose il buon uomo – io vel dirò: poi che io usai qui, ho in ogni dì veduto dar qui di fuori a molta povera gente, quando una e quando due caldissime caldaie di broda, la quale a’ frati di questo convento, et a voi si toglie, sì come soperchia, davanti: per che, se per ogn’altra ve ne sieno rendute di là, voi n’avrete tanta che voi dentro tutti vi dovrete affogare”.

Gli inquisitori non sono mai morti, esistono ancora e mandano virtualmente al rogo la spontaneità sganciata dal potere. La parola invidia, buttata come benzina sul fuoco della passione naturale e sincera dell’uomo che pensa, serve ai vili come arma per alimentare le proprie compulsioni citazioniste unite a una fondamentale incapacità di ragionamento logico o di analisti testuale. La verità è che gli inquisitori odierni non leggono nulla, meno che mai i libri degli idoli che venerano e a cui si inginocchiano in nome di un partito. E come il frate minore di cui favella egregiamente Boccaccio, ha puntato il dito contro un sano bevitore e buontempone, per interesse personale, gli intellettuali della stessa area, puntano il dito contro il vero lettore, sempre per coltivare i loro personali interessi. Il lettore disinteressato invece valuta nero su bianco. Ma guai se dovesse trovare qualche incrinatura nell’idolo-mito antropocentrico costruito dalla politica. Se dovesse trovare qualcosa che non va, ci sarebbero due opzioni: parlarne o tacere. La seconda soluzione è quella che va per la maggiore, un po’ per buona pace personale, un po’ perché il buon lettore ha studiato la storia e sa che così come i negatori di dio, ai tempi inquisitoriali, venivano uccisi e poi esposti come ammonimento ai viventi, anche egli verrebbe “esposto”, tacciato immediatamente di invidia come contropartita. Se trovasse la minima sbavatura nell’opera del mito, non avrebbe scampo. Così tutto tace. Muore la confutante libertà di dire ciascuno ciò che gli va, anche perché le baronie universitarie hanno decretato che siccome l’web è popolato di sciocchi che parlano troppo, mentre dovrebbero parlare solo i grandi accademici in odor di plagio, meglio star zitti, specie se si hanno spazi solo in rete e non sulla carta stampata.
Gli argomenti di chi non argomenta sono sempre gli stessi, ripetuti e rievocati a loop in circostanze e occasioni differenti: l’invidia e l’autorità. Se trovi che il mito sia difettoso sei invidioso; se critichi gli scrittori del sistema dominante senza avere autorità accademica, diventi in automatico un cretino qualunque, privo di seguito, depauperato di autorità. E senza autorità non si ha autorità, in pratica non si ha credito.
Col silenzio, si crea così il trionfo pubblico del monopensiero dominante, gestito da un manipolo di mediocri scribacchini che pensano di avere sempre la verità in tasca, soltanto perché seguono le indicazioni ideologiche di partito senza mai avere un parere proprio. Sono i profeti della certezza assoluta che non esiste nemmeno ma viene spacciata come cosa sacra.
Che bisogno c’è, a questo punto, di leggere un testo considerato sacro per rimetterlo in discussione? Che bisogno c’è di leggere criticamente un libro quando ci hanno già pensato gli altri?
Il mediocre non avverte l’urgenza della lettura, e arriva fino al punto di fingere di aver letto, semplicemente ripetendo a pappagallo i pareri di critici di parte e della stampa nazionale.
A questi livelli di ottusa chiusura il dialogo pro-contro diventa realmente del tutto impossibile perché viene messa in crisi la struttura stessa di ogni sano movimento dialettico e i punti di vista si annullano per confluire in un unico fuoco, la posizione dominante che gestisce la visione del mondo e mette al rogo chiunque osi dire no.
Se ci si ribella coi mezzi a propria disposizione contro questa cattiva gestione del metodo d’indagine, si è fuori e come un jolly esce fuori dalle bocche, la parola “invidia”, il passepartout di chi non ha argomenti per difendere l’indifendibile, la carta che evita di leggere e destrutturare un testo a favore del non dire praticamente nulla.

https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=CISzg6yi8YE

 

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