Giorgio Moio sarebbe poeta?

Giorgio Moio sarebbe poeta?

Giorgio Moio sarebbe poeta?

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Giorgio Moio sarebbe poeta?

La torre d’avorio, credit Antiche Curiosità©

 

Un vero artista sa mettersi in gioco, un vero poeta, non soltanto evita di autodefinirsi poeta ma accetta anche le critiche e soprattutto le confuta perché è giusto essere criticati ma è anche giusto confutare chi critica, in modo che la letteratura non sia scevra da un certo movimento di pensiero che potrebbe fare la differenza tra lettere morte e lettere vive e vegete.
Giorgio Moio sostiene che chi critica le sue poesie sia la volpe che siccome, poverina, non riesce ad arrivare all’uva della sua grande poesia, dice che sia acerba. Ci sentiamo di affermare in tutta onestà che la nostra solidarietà verso le volpi dopo l’affermazione di Moio è aumentata.

Questo è un suo componimento:

Se volete scrivere una poesia

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allora possiamo farla
come cazzo ci piace
sta sfaccimm’ e poesia
e allora c’è chi ci versa
un ditalino di varechina
chi un piscio di pipistrello
chi ci mette na cresommola
n’aglio aglialluto
chi un grido trivellato
chi una rosa insanguinata
na vrénzula ‘e parol’ elicoidali
come la buona pasta col ragù
che ci cucinavano le nostre madri
ma buttate via la presunzione
giovani che vi sentite già poeti
sapete cucinare una pasta e fagioli
costruire nu gliommero c’ ‘o spavo
na platessa allessa e assella
accendere le stelle quando piove
lasciarvi cullare dalle utopie
sulle onde del mare di capo di buona speranza
da un suono di buattelle dal ritmo di un bluesman
ma che sfaccimma – so’ sovere acevere o ammature
so’ lengue arrepusate o vummecano a ‘ssangue
quando vi fiderete del mare
no di quello ‘ntussecato/ dal solito vento
quello dai colori variopinti dei suoi interstizi
arrapato/arrevutato
respirando aria di disobbedienza di uno iato
se volete scrivere una poesia
imparate a dividere l’olio dall’acqua

Si tratta di una lezione in piena regola, un elenco del telefono che inizia con due versi che sono pura prosa: allora possiamo farla/come cazzo ci piace, mutuata dal linguaggio comune quotidiano, poi inizia l’elenco di oggetti volanti non identificati e identificabili nel loro senso comune: ditalino di varechina… piscio di pipistrello… na cresommola… n’aglio aglialluto… un grido trivellato… una rosa insanguinata e il minestrone è precotto, quindi viene il piatto forte, la buona pasta con il ragù, quella che ci preparavano le mamme, sì, perché i giovani poveretti, non saprebbero fare nulla. Arriva finalmente il punto centrale della poesia, l’invettiva contro la gioventù. Dato che il poeta sarebbe uno ormai arrivato all’apice di una splendida carriera letteraria, dice ancora in prosa: “buttate via la presunzione/ giovani che vi sentite già poeti”.
Il poeta sarebbe il vecchio saggio che insegna ai giovani a non essere superbi. Questi al limite che possono fare? Una pasta e fagioli? Ci pensa lui a fare lezione di scrittura creativa con retorichetta paternalistica e lo fa mischiando vocaboli a caso, che sembrano tirati fuori da un vecchio armadio ammuffito. L’espediente della parolaccia giace in un accatastamento lezioso e artificioso di vocaboli senza ritmo né coesione che ne giustifichi la presenza scenica. La parolaccia diventa il mezzo trasgressivo che dovrebbe svegliare la coscienza dei giovani nullafacenti e buoni a nulla, peccato che sortisca l’effetto di una forzatura creata ad hoc per nascondere la superbia moralistica e bacchettona dell’autore, poeta che non si interroga e impara, ma insegna, un maestro, un guru, un poeta conosciuto, come afferma egli stesso di essere, insomma quell’uva troppo alta per essere raggiunta dai comuni mortali. Imparate, dunque, giovani, da Moio a dividere l’olio dall’acqua! Certo se i risultati sono uguali a quelli di Moio, forse è meglio che andiate a zappare.
Insomma qui siamo quasi allo scimmiottamento, una specie di riedizione del manifesto della propria poesia ritenuta augusta e paradigmatica a confronto di quella impubere dei neo-poeti. Per il contenuto ci si attenderebbe lecitamente una succosa argomentazione del perché egli si senta scevro da promiscuità di titolo poetico con i giovani; sostanziando il discrimen, come faceva Callimaco coi Telchini, in ragione di una strutturale opposizione tra i voluminosi poemi epici e gli ἐπύλλια da lui redatti, ovvero evidenziando, come faceva Pindaro, che una cosa è essere ἀνδριαντοποιός, facitore di statue e vincolare la gente alla conoscenza in movimento, per raggiungere l’oggetto immobile della composizione artistica, altra è essere ποιητῆς, produttore di cultura mobile, in quanto verbalmente trasmessa di bocca in bocca e di convito in convito, nell’humus culturale fondamentalmente orale dell’epoca classica. Ma prescindendo dall’assurdità della sostanza comunicativa, varcando la soglia del Moio vernacolare ovvero para-vernacolare e tuffandoci nel mare magnum delle sue poesie in idioma nazionale, ci si accorge anche di stridori formali ben paludati dai partenopeismi dove sguazza più a suo agio.

Inno all’anarchia
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quando sarò un poeta senza padroni
canterò l’inno alla gioia o della liberazione
salterò tra sassi ruvidi o levigati dell’utopia
tra foglie del bosco dell’anima in fermento
finalmente libero di organizzare un sogno
associazioni di parole, di uomini, d’idee
di un mare incresposo di una canzone
dove finalmente mi culla l’insorgere
un fremito socializzato dell’ugualità.

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Nella suindicata ode dalla struttura ingenua, quasi elementare, alla mancanza di governo, nel cui exordium galleggia l’ambiguitas dell’inespressività del guinzaglio padronale cui il poeta sarebbe a tutt’oggi vincolato (non si sa chi siano questi tiranni né perché egli ne sia succube; egli non si degna di spiegarlo al lettore) rimangono stilisticamente opinabili e pesanti:

la variatio tra complemento di termine (alla gioia) e specificazione (della liberazione) nell’ ἀπὸ κοινοῦ costituito dal complemento oggetto che li regge (l’inno);
la mancanza degli articoli determinativi prima di sassi e foglie, vista la precisa indicazione del tipo di materiale citato in ragione dei dettagliati complementi di possesso che li determinano (dell’utopia/ dell’anima in fermento);
l’assenza dell’asindeto:
in coda al quinto verso tra sogno e associazioni;
tra il sesto e il settimo (d’idee/ di un mare) ;
nell’ottavo tra incresposo e di una canzone;
l’anafora della preposizione semplice “di” al settimo;
il neologismo “incresposo”, assente nel dizionario della lingua italiana, giustificabile unicamente come neologismo, che però appare intorpidito da quel “di” ripetuto che rallenta penosamente il ritmo;
la sostantivazione dell’infinito presente di insorgere, verosimilmente satura di tanfo di solennità.

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E fin qui staremmo a discutere all’infinito, trattandosi di soggettive valutazioni stilistiche, ma, se ne leggiamo altre entriamo nel delirio neologistico puro, vacuo, irrazionale ed incomprensibile; sfidiamo chiunque a leggerle e a dire che ci si intravede un filo logico ed un messaggio accessibile:

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sulla sfera ferrata
si fa nero il bianco
segnis no segnus
singes no sunges
una retta va diretta
nell’azzurro che ride
ridesta la stagione
nella distesa estesa
del nulla in voga
°
voga in gavo il vago in gova
segna in agnes senga di ganes
un’ombra dal bramo di barmo
soliloquio di un loquio liso
la luna nula nula la luna
nell’esile dell’elise esilarante
°
angoli di golina a spasso per linago
si rompe il cerchio della pigrizia
suoni rotti senza rumore per l’aria
si stendono come panni sui fili
filiazione non è semplice partecipazione
o spazio per un verdetto incerto
°
la forma è ferma e segna il passo
il punto si muove e traccia tracciati
luoghi di silenzi tra vociare di ciavore
revocia il vorecia tra il reciavo di ciarevo
ossimori del paradosso avverso
un colore locore di recolo riflette…

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Verrebbe da chiosare marinianamente: “È del poeta il fin la meraviglia/chi non sa far stupir, vada alla striglia”. Saremmo di fronte dunque a un déjà-vu con discesa qualitativa evidentissima.
Questo per quanto ha tratto con la forma di Moio, che intrica inutilmente la lingua in uno sperimentalismo completamente inespressivo che non vuol dire nulla. Se lo sperimentalismo non lo si carica di significato, diventa sterile terreno, inutile addobbo. Che vuol dire voga in gavo il vago in gova? La luna nula nula la luna? Revocia il vorecia tra il reciavo di ciarevo? Sembrano le prove microfono di un innocuo balbuziente che cerca disperatamente di pronunciare correttamente le parole ma non ci riesce perché è diventato bambino e come risultato ottiene una incomprensibile frittata semantica che lega la lingua e il significato al vuoto del nulla roteante su se stesso. Nemmeno il contesto dà l’idea del significato che rimane, purtroppo, lettera morta.
Moio è anacoreticamente isolato nella sua turris eburnea, sprezzante delle alternative giovanili al comporre, e nello stesso tempo fagocitante uno pseudo-sperimentalismo da stadio neonatale. Ecco, proprio quest’impostazione quasi da stilita del poeta sommo, contraddetta dai balbettanti tentativi innovativi che abortiscono il senso, ci suggerisce di indicare a Moio di andare davvero a fare il guru magari su una montagna incantata piena di specchi, così avrebbe materia egotica di cui cibarsi delirando su se stesso e guardandosi come Narciso, con poche ninfette e schiavetti che gli reggono il bordone delle frequenze, sempre molto poetiche, s’intende.

 

https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

 

https://www.youtube.com/watch?v=_dI11LcRlv0

 

 

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