Decamerone: giornata seconda, inganni

Boccaccio, Decamerone, giornata seconda

Decamerone: giornata seconda, inganni

 

Il Decamerone: giornata seconda

Il Decamerone: giornata seconda, Formiggini, 1922, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

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Il Decamerone: giornata seconda, cenni

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“Finisce la prima giornata del Decameron: incomincia la seconda, nella quale, sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine”.
Dopo aver letto la prima giornata, anarchicamente aerea, a tratti imprevedibile e non priva di accenti critici e anticlericali, la giornata seconda sembra a volte un piatto troppo condito e grasso, piuttosto pesante da digerire per un lettore non allenato. La semplicità essenziale delle novelle della prima giornata con la pregnante quanto impressionante descrizione della peste nera, e di contrasto la spumeggiante sintetica libertà del tema, lascia il posto a trame più contorte in arzigogoli talvolta piuttosto inverosimili, come per esempio la storia delle donna che allatta caprioli come se fossero propri figli, tema mutuato direttamente dalla simbologia fantastica medioevale. L’approccio descrittivo realistico si unisce a trame eccessivamente rocambolesche in cui è comunque possibile riconoscere luoghi precisi che diventano labirinti di vicoli e quartieri insidiosi, trappole infernali per gli ingenui.
Le novelle si allungano, le digressioni rallentano la lettura, la macchina della trama si complica, mischiando realismo e inverosimiglianza. I personaggi in genere avidi e vanitosi, sono privi di quelle che potremmo chiamare “complicazioni morali”. Non è la morale edificante lo scopo di Boccaccio, non si tratta infatti di letteratura didascalica, per fortuna. Il colpevole non viene quasi mai punito, anzi può perlopiù godere indisturbato dei frutti della sua rapina come a volerci dire che di giustizia a questo mondo ce n’è poca. Il finale è quasi sempre stereotipato e prevedibile, perché deve seguire la traccia proposta dalla regina della giornata, Filomena. Il lieto fine è d’obbligo e viene anticipato in microsunti che l’autore appone prima dell’inizio di ciascuna novella. Il derubato non si vendica, cerca soltanto di rimettersi in sesto come può. Andreuccio nella quinta novella, viene ingannato da una donna che dice di essere sua sorella e lo convince a passare la notte ospite a casa sua. Ma una volta ricoveratosi in camera, il povero commerciante cade in una botola e si imbratta tutto di materia lorda, accorgendosi che non può più tornare dentro. Si ritrova fuori casa a protestare per l’inganno subito. Rinuncia alla vendetta quando qualcuno lo avverte che la sua insistenza nel lagnarsi potrebbe costargli la vita:

 

Buono uomo, come tu abbi perduti i tuoi denari, tu hai molto a lodare Iddio, che quel caso ti venne che tu cadesti, né potesti poi in casa rientrare; per ciò che se caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima addormentato ti fossi, saresti stato ammazzato, e coi denari avresi la persona perduta. Ma che giova oggimai di piagnere?

 

L’ingannato però a sua volta non esita a farsi coinvolgere in un’azione in cui egli stesso si cala in un sepolcro per rubare l’anello a un abate morto, ingannando chi lo ha trascinato nell’impresa.
In un vortice di agnizioni, inganni reciproci, ripensamenti, naufragi, aggressioni, omicidi, lussuria, ingredienti condensanti e condensanti che arredano avventure varie e svarie, predominano astuzia e avidità come elementi cardine dell’azione.
Tuttavia la novella nona fa eccezione, non soltanto per lo stile più scorrevole ma soprattutto perché rovescia lo schema concettuale delle altre narrazioni. L’ingannato è infatti una donna virtuosa che rimane tale anche dopo la caduta in disgrazia e non solo ottiene la riabilitazione di prammatica agli occhi del mondo e del marito, ma anche un’atroce punizione per il colpevole, mercante di nome Ambrogiuolo:

Ambrogiuolo il dì medesimo che legato fu al palo e unto di mèle, con sua grandissima angoscia dalle mosche e dalle vespe e da’ tafani, de’ quali quel paese è copioso molto, fu non solamente ucciso, ma infino all’ossa divorato: le quali bianche rimase et a’ nervi appiccate, più lungo tempo, senza esser mosse, della sua malvagità fecero, a chiunque le vide, testimonianza. E così rimase l’ingannatore a piè dello ‘ngannato.

 

Di cosa si era reso colpevole Ambrogiuolo?
Di aver mentito circa l’onestà di Madonna Ginevra, diffamandola e causandole infiniti e dolorosi guai.
La novella inizia con una discussione di alcuni mercanti riuniti in un albergo di Parigi, sull’onestà delle donne in genere. Tra motti vari in cui qualcuno sostiene la sua propensione al plurimo tradimento della moglie, (che tanto anche le mogli sarebbero portate a fare lo stesso, e che la vera virtù sarebbe più ipotetica che reale) discorda il parere di Bernabò, genovese, il quale invece sostiene l’onestà della moglie, lodandone le magnifiche virtù: “bella di corpo, e giovine ancora assai… costumatissima, savia e discreta molto… la commendò meglio sapere cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e scrivere e fare una ragione, che se un mercatante fosse… e se mai fuor di casa dimorasse, ella mai… non intenderebbe con altro uomo”.
Al che Ambrogiuolo risponde con la teoria fallo-antropocentrica della superiorità dell’uomo rispetto alla donna, teoria sostenuta dai più ma che Boccaccio, da quel rivoluzionario femminista ante-litteram che è, saggiamente smentirà durante il corso della narrazione. I fatti daranno ragione al genovese e torto ad Ambrogiuolo che così ciancia:

… l’uomo essere il più nobile animale che tra mortali fosse creato da Dio, et appresso la femina, ma l’uomo, sicome generalmente si crede, e vede per opere è più perfetto; et avendo più di perfezione, senza alcun fallo dee avere più di fermezza e costanzia, per ciò che universalmente le femine sono più mobili, et il perché si potrebbe per molte ragioni naturali dimostrare, le quali al presente intendo di lasciare stare…

Il mercante afferma senza provare, rinuncia alle dimostrazioni, semplicemente ricalca il luogo comune del tempo, facendolo proprio nella discussione. È un indizio di rinuncia al ragionamento. Poi continua sulla base di un principio non dimostrato, a discettare sulla inaffidabilità delle donne:

Se l’uomo adunque è di maggior fermezza e non si può tenere che non condiscenda… che speri tu che una donna naturalmente mobile, possa fare a’ prieghi, alle lusinghe, a’ doni, a mille altri modi che userà uno uomo savio, che l’ami? Credi che ella si possa tenere?
Certo, quantunque tu te l’affermi, io non credo che tu l’creda, e tu medesimo di’ che la moglie tua è femina, e ch’ella è di carne e d’ossa come sono l’altre. Per ché, se così è, quegli medesimi disideri deono essere i suoi, e quelle medesime forze che nell’altre sono, a resistere a questi naturali appetiti: per che possibile è, quantunque ella sia onestissima, che ella quello che l’altre faccia…

Barnabò risponde che le donne prive di fermezza sono stolte e senza vergogna ma che ci sono donne savie, forti più degli uomini, sostenendo il concetto dell’uguaglianza uomo-donna, con quel “più degli uomini” che indica qualità superiori, infatti mentre l’uomo non si cura del suo onore in faccende coniugali e va a giacere dove capita, la donna è più forte quando è saggia e ha gran cura di sé e della sua onestà:

 

Io son mercatante e non filosofo, e come mercatante risponderò. E dico che io conosco, ciò che tu di’ potere avvenire alle stolte, nelle quali non è alcuna vergogna; ma queste che savie sono hanno tanta sollecitudine dell’onor loro che elle diventano forti più che gli uomini, che di ciò non si curano a guardarlo; e di questa così fatte è la mia…

 

Barnabò e Ambrogiuolo scommettono sull’onestà di donna Ginevra. Ambrogiuolo per vincere la scommessa, non se la sente di tentare la donna col rischio di perdere, quindi penetra di nascosto nella camera di Ginevra e la osserva di notte, notando il neo sul suo seno, osserva l’arredo e ruba alcuni oggetti. Dirà che glieli ha dati la donna in ricordo dei loro sollazzi. Ambrogiuolo racconta il falso a Barnabò e riscuote i soldi della scommessa che dice di aver vinto.

Barnabò e Ambrogiuolo incarnano simbolicamente le due facce del mercante, saggezza ed astuzia, bene e male. Il mercante può essere furbo in senso positivo, perché bada al profitto e ai suoi guadagni, moltiplicandoli, grazie alla sua abilità nel commercio, ma può essere altresì anche un uomo riprovevole che accumula denari avidamente, trasformando la sua astuzia da dote e virtù in negativa avidità. Lo schema del bene che si tramuta in male è in questa novella nona spostato. Non è la protagonista donna che da gabbata si incattivisce, secondo lo schema presente nelle altre novelle, chi si trasforma è invece il marito, Barnabò che da uomo retto, saggio e fiducioso, diventa per gelosia un assassino. Manda infatti un uomo di fiducia a uccidere la moglie per il presunto tradimento. Se la donna si salva è solo per la sua astuzia e la sua forza di persuasione, a dimostrazione che una donna può essere furba come un uomo.
Non è un caso che Ginevra, a differenza dei personaggi maschili che tutti si corrompono, rimane coerentemente pura e onesta e ottiene quella vendetta che gli uomini protagonisti delle altre novelle non riescono ad avere. Boccaccio ce lo dice chiaramente: la donna saggia è meglio di un uomo.

 

https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=yN4BHcwa4_Y

 

 

 

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