Concorso Destrutturalista: i vincitori

Concorso Destrutturalista: i vincitori

Concorso Destrutturalista: i vincitori

Di Mary Blindflowers, Mariano Grossi e Antonio Francesco Perozzi©

 

Concorso Destrutturalista: i vincitori

Concorso Destrutturalista: i vincitori, elaborazione grafica (su un dipinto di Mary Blindflowers), Gero la Vecchia©

 

La prima Sezione Speciale Destrutturalista de Il Concorso il Parnaso si è appena conclusa con grande soddisfazione da parte nostra sia per la scelta finale che per le discussioni che ciascun partecipante ha innescato nella giuria.

Qual è il valore della poesia sperimentale?

Quello di significare e contemporaneamente giocare con le parole fino ad una decostruzione del reale e dell’immaginario che finge (nel senso positivo del termine, inteso come finzione artistica) per dire la verità.
Molti sono stati scartati perché non rispondenti ad una visione destrutturalista della poesia. Su qualcuno abbiamo avuto lunghe discussioni e ovviamente dubbi. Con convinzione abbiamo scartato alcuni concorrenti rispondenti ad un’ottica ottocentesca della poesia; con dispiacere ne abbiamo scartati altri sia pur validi, ma che proponevano un contenuto privo di significato a favore del solo stile estetico-visivo. Alcuni si sono risentiti, altri hanno fatto gli snob, altri ancora hanno protestato, giurato e spergiurato di essere grandi poeti, di aver vinto premi, etc. Il Destrutturalismo però non pensa che giudicare un componimento sulla base del nome o dei premi vinti o di certa autostigmatizzata grandezza sia un buon metodo di valutazione. Si giudica il testo nudo e crudo, indipendentemente da chi lo abbia scritto.
Per questo motivo la giuria ha valutato le opere partecipanti in base ad una prospettiva di sperimentazione sia contenutistica che formale, come previsto dai punti fondamentali del Destrutturalismo. Le poesie giudicate vincitrici corrispondono a quelle ritenute più in grado di intrecciare l’anti-convenzionalità stilistica (a livello ritmico, retorico e grafico) a tematiche abrasive e non rassicuranti, e che più sono riuscite a non ricadere né, da un lato, nel contenutismo privo di consapevolezza stilistica, né, dall’altro, nel formalismo fine a se stesso.

Con “Io non mi intendo dell’arte” Desanka Jaukovic, prima classificata, utilizza la tecnica dell’acrostico (che riproduce il titolo) per iniettare all’interno del significato letterale del testo un significato ulteriore che amplifica la crudezza dei temi proposti. Il corpo è inteso come “mischia” di “ossa e carne, carne e sangue”, come un “fardello” e un “lembo di elemosina” che sembra privato di ogni valore psicologico o spirituale. Una dimensione del corpo in “eterna cecità” rende vana ogni teorizzazione dell’arte, che rimane elemento anti-corporeo esterno, ideale, per certi versi impossibile da svelare fino in fondo: “non mi intendo dell’arte”, appunto, quando la stessa arte diventa un modo per “anatomizzare la realtà”, cercando di sfuggirle contemporaneamente in una dinamica contraddittoria che spinge a riflettere chi legge. La compostezza ritmica della poesia non deve trarre in inganno perché l’autrice propone comunque un tema graffiante con quei “lembi di elemosina dati al povero” per legarlo alla sua eterna cecità e renderlo schiavo. Si crea una sorta di ciò che potremmo definire ossimoricamente un “intimismo paradossalmente universale”, che esula dall’io per il noi, attraverso un procedimento che parla in prima persona, ma nello stesso tempo vola oltre. Né il giogo dell’acrostico depaupera la struttura fraseologica della composizione, mai lessicopenica e sempre fruente di un ventaglio di voci vario e saggiamente dosato, laddove l’autrice ripete due volte solo il vocabolo fardello, non rinunciando alle assonanze scabre e asimmetriche pur nelle linee svincolate dalla metrica (fardello-cancello-fardello; appesi-illeso; fratellanza-speranze; cecità-realtà) al fine di dar ritmo e sferza al narrato.

Io non mi intendo dell’arte

.

Io non si racchiude mai nell’io

O almeno così mi sembra quando al fior della bocca nasce un

Noi

Ossa e carne, carne e sangue, una mischia

Negletta nel mio fardello, sono una

Mischia, nient’altro

I soliti stracci appesi ad un

Illeso senso di fratellanza

Nostalgie

Tolte dall’abisso, speranze consumate che

Enormi siano punti di ritrovo di noi

Nomadi

Demoliti e

Oltrepassati nei limiti

Di questo grande cancello

E se il mio fardello non è altro che un

Lembo di elemosina dato a un povero per

Legarlo alla sua eterna cecità?

Anatomizzando la

Realtà, io, un miope vagabondo,

Tentavo inutilmente di

Evitarla.

(Desanka Jaukovic, Montenegro)

 

Anna Maria Dall’Olio, seconda classificata, con la poesia “Arte fabbrile“, opta per una maggiore disarticolazione dei versi, la cui architettura è anti-geometrica e sconnessa, anche da un punto di vista grafico. Il delirio provocato dalla rottura dell’impaginazione tradizionale, dagli incisi e dalle anafore, si accorda con il tema alienante della produzione dell’oggetto: l’“arte fabbrile” è anche “febbrile” nella generazione meccanica e frenetica, che reclude il soggetto in uno spazio indefinito e spersonalizzante (“come la tassa che ti calca il collo / ti porta in terra di nessuno / ti denuda come continrosso”) e sottoposto alla dipendenza da un oggetto che rimane tuttavia indefinito (“- cosa mai la definizione –“).
C’è un controcanto abbastanza chiaro contro il potere definente delle catalogazioni e in questo senso la sua voce può essere definita destrutturalista. E la frantumazione dell’omogeneità delle linee viene saggiamente compensata dalle figure retoriche di suono (fabbrile-febbrile; catrame-carta; riciclati-precipitati¸ finemente-finalmente; sintetico-organico; essenze-esistenze) e di ordine (ti calca il collo- ti porta in terra di nessuno) a testimonianza di un bagaglio tecnico nel solco dei canoni poetici normotipi, pur in un sostrato dichiaratamente innovativo e destrutturale.

Arte fabbrile

.

scintille sprizzate dal tasto

– entropia d’arte febbrile –

catrame si riversa sulla carta

come sangue sull’asfalto

piombo s’allenta

dondola a brezza di pinguino

oggetti quotidiani

riciclati in strutture 3D

in precipitati dalla stampante

come la tassa che ti calca il collo

ti porta in terra di nessuno

ti denuda come continrosso

oggetti già ben definiti

– cosa mai la definizione –

già fluidi come ketchup

sintetico/organico finemente

finalmente

per nuove essenze

per nuove esistenze

(Anna Maria Dall’Olio)

 

 

Infine, “Al chiosco verde” di Marco Mittica, terzo classsificato, indaga lo spazio generatosi dal legame allentato del vetro (trasparente, specchiante e duplicante). La voce parlante s’identifica col creatore dell’opera e ne percepisce il dramma dell’incomunicabilità tra il pensiero e l’ottusa riproduzione di esso attraverso l’opera stessa (“Costante di pensieri / versati parrebbero / essere la lettura / il calcolo e / qualche sterile / cenno al vecchio”). C’è una critica alla sterilità della riproduzione artistica dei temi, c’è, attraverso uno stile solo apparentemente semplice (sintomatica in tal senso la sequenza di elementari relative che si inanellano l’una sull’altra in posizione teleutastica alle linee 5 e 8, e acrostica alle linee 13 e 15) , la capacità di trattare temi importanti.

 

Al chiosco verde

.

Al chiosco verde
potevo guardare
il mio genio
all’Opera
su una vetrina che
avrei riprodotto
qui a fianco
nel vetro che
confonde
i legami
tra scrivere
e significare
che tranquillizza
svuota
che aspetta
un la.
Costante di pensieri
versati parrebbero
essere la lettura
il calcolo e
qualche sterile
cenno al vecchio.

 

 

https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=YfLUYSxCmyw

 

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