Idea, vera rivoluzione poetica

Idea, vera rivoluzione poetica

Idea, vera rivoluzione poetica

Di Mary Blindflowers©

Idea, vera rivoluzione poetica

The launch of the light bulb, drawing on paper by Mary Blindflowers©

 

Il confine tra prosa e poesia oggi è diventato labile, incerto, aleatorio, soggetto a discussioni che girano attorno alla filosofia, allo stile, alle regole e al significato.
Alcuni sperimentatori propugnano una rivoluzione radicale del linguaggio e della poesia soltanto attraverso la manipolazione estetico-visiva della forma, quindi mettono le lettere minuscole dopo il punto, oppure creano poesie come disegni, dalle varie forme accattivanti, a piramide, a palla, a gelato, a pianticella, con sottolineature, coi colori, con parti in neretto o scritte con un carattere diverso… di tutto di più, come al mercato delle pulci, confondendo decisamente il mezzo con il fine.
Il mezzo è infatti sempre la materia, essa è la forma convenzionale che serve per la comunicazione, la massa che l’idea utilizza per dire; il fine non potrà e non dovrà mai essere la materia, ma l’idea che dovrebbe volare oltre la convenzione anche se è sostenuta da essa, inevitabilmente, dato che viviamo in un mondo di catalogazioni inesistenti create ad hoc da noi stessi.
L’obiezione più comune a questo tipo di ragionamento recita che siccome la punteggiatura e le parole sono convenzionali, allora si possono modificare, per creare una rottura creativa, una protesta delle lettere.
L’obiezione però in termini filosofici non ha senso per vari ordini di motivi. Primo la rottura creativa non si opera con la forma ma con l’idea, infatti una bella forma depauperata di senso, rimane soltanto una bella forma, prettamente fine a se stessa e totalmente inutile. Secondo esistono convenzioni buone e convenzioni cattive. Tutto infatti è convenzione. La prima lettera mai pronunciata sulla terra da voce umana è convenzione, l’alfabeto, i numeri, sono convenzione, l’intreccio di parole, la punteggiatura, gli stessi nomi che portiamo più o meno orgogliosamente nel mondo. La convenzione nasce con lo scopo di ordinare un mondo troppo complesso per le nostre piccole menti. Così abbiamo bisogno di nominare, di contare, di parlare tramite dei mezzi che sono nati per comunicare. In pratica non esistono né lettere, né numeri, né nomi, né punteggiatura, né meridiani, né paralleli, e nemmeno noi siamo nel modo in cui ci nominiamo. In questo senso filosofico nulla esiste realmente, nemmeno un cane, perché siamo noi che lo chiamiamo cane, e abbiamo deciso arbitrariamente che il termine cane deve venire usato per designare un animale a 4 zampe di cui perlopiù ignoriamo tutto, infatti anche che le zampe siano 4 lo abbiamo deciso noi, perché abbiamo stabilito che il numero 4 serve a designare una certa quantità di oggetti, una quantità precisa, sempre la stessa. Tutto dunque è convenzione. La convenzione di per sé non è una cosa cattiva perché ci aiuta a capire il mondo, (sebbene crei una sorta di illusione ontologica negli spiriti semplici di stampo ostinatamente parmenideo), aiuta la catalogazione della realtà che di per sé farebbe a meno di essere catalogata da noi perché non siamo poi tanto importanti, ma siccome non rinunciamo a vivere cercando di capire qualcosa, cataloghiamo. Certo per un creativo la parola catalogazione appare abbrutente, un’aspetto noioso di una realtà assurda, comprensibile solo per finta e parzialmente. Però che ci piaccia o no, la convenzione fa parte delle nostre vite e ci aiuta a non diventare matti. Tutti usiamo la convenzione, anche i creativi che dovrebbero lottare contro l’imbarbarimento della stessa. Sì, perché anche il creativo chiama libro un libro e cane un cane, anche lui sa contare e decidere che le mele che ha acquistato al supermercato sono dieci piuttosto che undici, sa la sua data di nascita e che ore sono. Quindi il vero creativo sa che egli stesso è prigioniero della convenzione, tutta la specie umana lo è, per il solo fatto di essere umana e di essersi costruita da sola la cella dentro la quale vivere e morire ben catalogata con il proprio nome e cognome. Il creativo però sa anche che la convenzione diventa barbarie quando da semplice mezzo viene confusa col fine. Il fine di un’opera d’arte non si raggiunge infatti attraverso la modificazione della sola convenzione stilistica o la sostituzione di una convenzione con un’altra, ma con l’idea.
Se in un testo poetico metto il minuscolo dopo il punto, cosa cambia a livello di rivoluzione dell’idea?
Ho rotto soltanto lo schema di quella convenzione grammaticale che è utile per la comunicazione, con un’altra scelta arbitraria, e dunque convenzionale, che potrebbe certo anche diventare una regola, ma siamo sempre al gatto che si morde la coda, utilizzando un principio sostitutivo che lascia la bestia comunque prigioniera di se stessa e del mondo. Non è cambiato nulla nella comunicazione cambiando la punteggiatura. Niente di rivoluzionario, così come niente di rivoluzionario e destrutturante è il cambiare l’ordine delle parole e degli spazi, le sottolineature, il grassetto eventuale, le forme bizzarre in cui vengono impostate graficamente la parole. Mancano solo le poesie a forma di pesce, di albero, di mucca, di pene, di pane, di iene, di sirene, di antenne, di biscotti e di rospo nello stagno e siamo a posto in un bagno di nulla fritto e rigirato nell’olio che è già stantio.
Questa sarebbe sperimentazione?
Per me no.
L’esperimento nasce dall’idea che manipola lo stile, mezzo per comunicare. E l’assioma di coloro che recitano a pappardella il concetto che le idee siano tutte riciclate, ferma la sperimentalità vera in acque stagnanti per concentrarsi su poesie e componimenti in cui la forma, che dovrebbe essere solo mezzo convenzionale, diventa fine della poesia stessa e cattura tutta l’attenzione, dimenticandosi del significato.
Il fine è e deve rimanere sempre l’idea, perché solo l’idea può essere libera, vera e non allineata; l’idea supera la finitudine impura e disgregante della parola, della punteggiatura, del neologismo stesso, suo più felice parto, per volare alto, in un mondo dove la convenzione è finalmente e definitivamente superata. L’idea usa la convenzione, la manipola, per potersi esprimere liberamente. Non deve accadere il contrario, ossia la convenzione non può manipolare l’idea, nemmeno il neologismo può manipolare l’idea, ma essendo materia né è giustamente manipolato, cioè è usato per esprimere un’idea, un significato. Se il neologismo non subisce la manipolazione dell’idea, si finisce come Maraini, grande sperimentatore della forma senza idee, il cui grandissimo limite è stato proprio l’assenza dell’idea a favore di un significato estetico gradevole ma completamente vuoto, tributo all’innocuità, causa probabile, assieme ad altri fattori politici, del suo successo. Se fosse stato meno innocuo le sue pur pregevoli assonanze neologistiche, sarebbero state apprezzate e ricordate? Ne dubito. E comunque i suoi sono solo esercizi di stile. Non ha avuto il coraggio di caricarli del senso dato dall’idea profonda. La bellezza neologistica senza un’idea è convenzione che si imbarbarisce, arrivando al naufragio della poesia stessa nello scioglilingua che non significa proprio nulla. Se l’idea non manipola la materia, ma ne è manipolata, il risultato rimane parziale, estetico-superficiale, senza vera profondità e quindi funzionale al potere.
Una poesia che non denuncia è una poesia atona, silenziosa, uno sfizio ed esercizio per classi altolocate e snob, arroccate nell’idea dell’innocuità della poesia oppure della sua incomprensibilità. La sperimentazione ha bisogno invece di significati che vadano oltre la forma. Il neologismo deve avere un significato partorito dall’idea, se no è lettera morta, ciarla stilistica che non taglia e diverte i seguaci nel non pensiero in finta libertà da scioglilingua divertente che però rimane a mangiarsi la coda.
Anche la dissoluzione della poesia che diventa prosaica, del verso che non c’è più, la perdita completa della assonanze a favore di una prosa che va semplicemente a capo un po’ a caso, come viene viene, non è destrutturazione che implica una ricostruzione creativo-critica dell’idea, ma è solo demolizione della poesia stessa, dissolta nell’assioma qualunquistico che nessuno sappia cosa sia la poesia e che quindi tutto, anche la prosa, possa e debba diventare poesia e chiunque poeta.

L’idea (fine) invece è tutto quando si serve della forma (mezzo). La poesia è completa quando il mezzo consente il fine. L’idea e la forma si completano a vicenda. L’assenza di uno solo di questi due elementi crea un risultato deludente, o parziale, per questo occorre curare contenuto e stile.

Idea. La vera rivoluzione è racchiusa in questa parola di 4 lettere che nemmeno esistono, eppure consentono all’idea di fare la differenza tra un poeta libero ed un superficiale esteta del potere. Quando l’idea manipola esteticamente la forma trascinandola verso la profondità capace di superare convenzioni non puramente materiali, allora è poesia. Tutti sono potenzialmente capaci di mettere una minuscola dopo il punto o di allineare le parole a forma di una bella palla pallina, o di una gallina che fa coccodè, ma non tutti sanno andare oltre con l’idea. Per fare il poeta non basta la forma, non basta nemmeno il poeta stesso che, insaziato nella sua ricerca dell’idea oltre la croce della convenzione, non può e non deve bastarsi. Se si bastasse auto-definendosi, già non sarebbe più nulla, tantomeno un poeta.

 

https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=pkcJEvMcnEg

 

 

 

 

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