Sulla indefinibilità della poesia

Sulla indefinibilità della poesia

Sulla indefinibilità della poesia

Di Mary Blindflowers©

Sulla indefinibilità della poesia

The Divism, mixed media on canvas by Mary Blindflowers©

 

William Blake in una lettera al Dr. Trusler del 23 agosto 1799, scriveva con consapevole autocompiacimento per il suo stesso genio:

Lei dice che mi occorre qualcuno che spieghi le mie Idee. Ma dovrebbe sapere che ciò che è Grandioso è necessariamente oscuro ai Deboli. Ciò che si può rendere esplicito all’Idiota non vale la mia cura. I più saggi tra gli antichi considerano il non troppo Esplicito massimamente adatto all’istruzione, perché suscita le facoltà dell’azione.

Polemico in odor di zolfo massonico, simbolico, profondo, mai innocuo, Blake era consapevole di scrivere per un lettore disincantato che sapesse andare oltre le righe.

La frase di Blake introduce il problema dell’oscurità della poesia e della sua inqualificabile oggettività. La poesia dovrebbe essere una merce per tutti, svenduta a poco prezzo sul mercato globale del business e dei pietosi quanto noti instagram poets. Chi osa definire cosa sia la poesia o dire cosa non sia si mette in una posizione filosoficamente difficile e impopolare. Definire l’indefinibile, si può? Forse no, tuttavia se definire significa catalogare e in qualche modo imprigionare la poesia dentro compartimenti stagni che potrebbero finire in acque altrettanto stagne e immobili, non definire diventa a sua volta definire quando si dice che siccome la poesia è il regno dell’indefinibilità e dell’aleatorietà, tutto può essere poesia, allora tutti sono poeti, il che appare una nullificazione nullificante che tende al nulla per il nulla e parla di nulla per scivolare nel mero appiattimento di qualunque opinione sensata e nel mondo della classificazione stessa. Dire tutto è poesia è catalogare tutto come attinente all’universo poetico, un’operazione generalizzante e banalizzante.
Così un Cavallo che gridava: addio fase poetica/ della carineria/ Stop/ Voglio più soldi/ e voglio che andiate/ a cacare. Se non vi và/ Andate a cacare/ uguale/, è poeta, nonostante in questi “versi” non ci sia nemmeno un verso. Però c’è il nome e il nome fa il verso, quel principio diverso con cui si guarda una poesia esulando dal suo contenuto oggettivo a favore di un divismo preconcettuale stigmatizzato per noi dal super-ego di chi ha deciso che quel Cavallo, attore, fosse pure un poeta e lo fosse indiscutibilmente data l’esigenza pietrificata del nome scolpito.
Il nome fa sempre la differenza, è la tara che la società si porta appresso da secoli e millenni, chi ha il nome ha la poesia, ha la letteratura, ha la saggistica, ha tutto quello che decide di avere e forse anche quello che pensava di non avere o di non meritare; chi non ha il nome può ridursi alla fantasia di essere poeta, saggista o letterato, forse, ma solo nella sua immaginazione, non nell’immaginario collettivo tarato, tarlato e liquefatto dall’autorità imposta, dai libri comuni sparpagliati ovunque in milioni di copie, presenti perfino negli scaffali dei carciofi al supermercato.
La poesia diventa facile, la comprensibilità un segno dei tempi che scadono verso quell’Esplicito a tutti i costi che giustamente Blake aborriva e che scacciava come una mosca posata sul naso di un profeta. La profondità viene abolita in nome di quell’ideale populista che prevede che tutti debbano leggere e capire le poesie. Muore così l’immaginazione, quella capacità di forgiare una realtà altra, diversa rispetto al realismo comune.
E sempre Blake diceva: Io non conosco nessun altro Cristianesimo e nessun altro Vangelo che non sia la libertà di corpo e spirito di esercitare le arti divine dell’Immaginazione.
L’immaginazione oggi viene sostituita dalla banalità, la poesia rinuncia al simbolo, all’allegoria, a ciò che si intuisce tra le righe ma non si dice esplicitamente, rinuncia al mistero in nome della comprensibilità universale che poi è un falso mito, un mito di finta democrazia, perché non è affatto vero che tutti possano e debbano capire una poesia o che la poesia debba a tutti i costi essere immediatamente comprensibile soltanto perché il business ha deciso che chiunque possa essere un poeta.

Dove finisce allora quell’affascinante sintesi della parola che dice per dire qualcosa ma sottintende anche qualcos’altro? Dove finisce lo sforzo interpretativo e la polisemia e le sfumature che rendono un testo poetico e letterario degno di essere letto e capito?
Ecco allora la “poesia” che diventa prosa per compiacere la massa e diventa banale per farsi capire e ridicola per farsi chiamare democratica, quella poesia che rinuncia alla ricerca sulla lingua, alla richiesta di sforzo da parte di un lettore che legge e non segue le mode.
Che senso ha più a questo punto la parola poesia?
Nessuno, tranne per chi ancora pensa che oltre ciò che si dice ci sia soprattutto quello che si intuisce, oltre un realismo becero, da strada, che diventa a tratti volgare oltre che banale, ci possa essere ancora qualcuno che in versi inevitabilmente ormai sciolti, possa pensare che la poesia non sia solo comunicazione ma nasconda un mondo a parte, quell’universo dell’immaginazione, quel piano parallelo dell’essere, che rendeva ieri, rende oggi e renderà domani, un testo degno di essere letto.

 

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-psico-pillole/

https://www.youtube.com/watch?v=AeMnzhQR4xQ

 

 

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