Il pensiero è ribelle

il pensiero è ribelle

Il pensiero è ribelle

Di Mary Blindflowers©

il pensiero è ribelle

Lucifer tombe, mixed media on canvas by Mary Blindflowers©

 

Il pensiero demandato a terzi, la deresponsabilizzazione dell’opinione, attuata attraverso meccanismi di coercizione di massa per cui se un parere viene espresso dal portatore sano o insano di un nome, diventa legge, se lo stesso parere viene espresso da un anonimo signor Nessuno, resta opinione senza fondamento. Così il nome domina le coscienze e il meccanismo del pensiero individuale diventa quasi un atto indecente per cui occorra nutrire vergogna, così si pensa a piccole dosi e senza sporgersi troppo sia nella vita ordinaria che nei social, perché la finestra della ragione è occupata da figure ingombranti che la politica ha deciso debbano essere le sole depositarie della capacità di pensare.
Si pensa sempre più per bocca d’altri e lo si fa quasi in automatico, come movimento garantito, suggellato dal crisma dell’infallibilità e se mai si dovesse al contrario criticare qualcosa si critica soltanto il pensiero del depositario del nome, il solo che abbia diritto di essere lodato ma anche di essere criticato. Comunque se ne parli, il depositario del nome è contento, finché attira l’attenzione. Che le sue idee siano il precipitato naturale delle direttive dominanti di un partito o di un gruppo di potere, non importa e non soltanto non importa all’uomo definito “comune”, di bassa o media cultura e scarsa o media erudizione, ma quel che è peggio è che non importa all’uomo che si autoetichetta come “colto” o che perlomeno ostenta cultura come un vestito valido per tutte le stagioni, inforca i suoi occhiali e discetta soltanto su ciò che il signor Qualcuno ha detto. A tutti gli altri si risponde: “e tu chi sei per parlare? Chi pensi forse di essere?” La domanda presuppone la confusione tra essenza e sostanza, tra apparenza e verità o falsità. La verità e la falsità sono rappresentate entrambe egregiamente dal nome del momento, tutto il resto è nulla, fa parte del mondo del caos, quello senza regole che spaventa perché là i neuroni non indossano la casacca del partito o del gruppo, fluttuano nel buio dell’anonimato, nell’indistinta quanto inutile saggezza dell’autonomia di pensiero. L’uomo che pensa è fuori moda oggi. Se poi il suo pensiero è trasversale e non vede l’opportunità di collocarsi, la situazione diventa davvero imbarazzante. Un cane sciolto non ha diritto di replica, è un angelo scacciato dal Paradiso Terrestre, un reietto, un Lucifero, un isolato, un tipo perlopiù strano che non capisce e non vuol capire che le appartenenze politiche sono fondamentali nel mondo culturale e non. Così se per caso capita che questo cane sciolto esprima un parere non condiviso dai più, diventa un fenomeno da baraccone e le domande sono sempre le stesse: “chi sei tu per dire? Chi sei tu per fare e per pensare?” Poi si arriva alla supposizione che diventa certezza, perché il meccanismo dell’idiozia è nutrito soltanto di dati supposti spacciati per solide verità inattaccabili che, mentre si sgretolano, dichiarano contemporaneamente la loro litica e intoccabile natura: “Se non pubblichi con un grosso editore vuol dire che non sei così bravo. Ti è mai venuto il dubbio che forse quello che scrivi non vale nulla?”
Con questo discorso l’intellettualetto allineato pensa di aver raggiunto il top dialettico della sua categoria di intronato doc, e si sbrodola da solo pensando a quanto possa essere stato bravo e convincente agli occhi del deficiente medio. Peccato che i grossi editori pubblichino parecchie ciofeche innominabili, scambiate per caffè forti, ambrosia e nettare di dei. L’allineato si contorce allora su se stesso e ripete come un pappagallino bolso la domanda ripiegata su se stessa a chiudere un circolo vizioso di neuroni bloccati: “Ma tu chi sei per dire che sono ciofeche?” Il tocco finale mette in ballo l’invidia, la parola magica usata da schiere di imbecilli per evitare che si parli troppo, che si pensi troppo, che si respiri troppo. A questo punto non si sa chi sia peggio, se l’idiota integrale che taccia di invidia chiunque veda la realtà editoriale com’è, oppure l’intellettuale tacciato a sua volta di invidia che decide di tacere per evitare che gli diano ancora dell’invidioso e che si faccia la brutta nomea di “rosicone”.

È davvero così terribile sentire un imbecille che blatera e punta il dito chiamandoci invidiosi? È un’offesa così forte da farci rinunciare all’amore della verità?

L’invidia è la scusa per tacere, un jolly sia per chi lo usa, sia per chi lo subisce che così può, accusato, mettere i sigilli al suo pensiero, per venire accettato come buono, non astioso, scevro da risentimenti, per costruire la sua immagine fittizia, quella che non è il vero sé ma piace tanto agli altri in nome del politicamente corretto, rinunciando all’enucleazione del vero per un immediato quanto transeunte vantaggio personale, per una ricezione di simpatia universale che sbiadisce la sua capacità di pensiero, il movimento delle sue idee personali le quali non contano nulla senza l’autorità, perciò si adagiano sul fondo della coscienza, vengono nascoste in un angolo oscuro, creando una società implosiva, di malati cronici trattenuti, di stitici delle idee, una società immatura, codarda e sciocca che segue il nome come garanzia di qualità, lasciando tutto il resto nel dimenticatoio.
La letteratura non può non essere condizionata da questa scelta, così pulluleranno opere inutili, edulcorate, allineate, di fragile impianto creativo, monotematiche e nostalgiche di un passato carico di miti confezionati dal potere, prone a scrittori lodati senza che siano stati mai letti (basta il nome infatti come sigillo di garanzia), e di frasi fatte ripetute nei salotti più o meno virtuali come ritornelli per rimbambiti.
La morte della letteratura.

Scriveva Mauriac: “il pensiero è ribelle, impossibile impedirgli di correre dove vuole”.

 

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-psico-pillole/

https://www.youtube.com/watch?v=pJVHQctv2zg&list=PLB5FDC31B074B9FAF

 

 

Comment (1)

  1. Claudio

    Io una volta ho paragonato un libro di Savina Dolores Massa, ovvero Il carro di Tespi, a Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, e un’autrice Einaudi (anche se garbatamente) e un autore Rizzoli (in modo offensivo, sgarbato e supponente), hanno iniziato a prendermi in giro perché per loro il paragone era assurdo e ridicolo. Ma quando ho chiesto loro se avessero letto quel libro della Massa per criticarmi così, mi hanno risposto di no, anzi non ne avevano letto nessuno di lei. E addirittura non avevano neanche mai letto Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. E allora in base a cosa mi hanno attaccato e criticato? Semplice, in base al fatto che Dostoevskij è famoso e Savina Dolores Massa non lo è. Certo l’autore russo è sicuramente superiore alla nostra autrice nostrana – lo posso dire dopo aver letto le opere maggiori di entrambi – ma Il carro di Tespi, almeno nel confronto con Memorie dal sottosuolo, non sfigura, anzi… Però bisognerebbe leggerli entrambi per valutare, cosa che questi prescelti non faranno mai, perché sono convinti di non aver bisogno di farlo. Il loro status sociale eletto li ha dotati fin dalla nascita del dono dell’onniscienza.
    Questo lo trovo assurdo, e mi chiedo come facciano le persone a non vedere l’errore alla base di questo tipo di pregiudizi e ragionamenti. Eppure, nella storia ci sono stati casi clamorosi. Van Gogh per tutta la vita non è stato considerato da nessuno, e chiunque avesse cercato allora di paragonarlo a un pittore famoso, sarebbe stato ridicolizzato. E invece oggi? Fanno la stessa cosa con qualunque sconosciuto venga paragonato a lui!

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