Lezioni di Tuzzi talento

Lezioni di Tuzzi talento

Lezioni di Tuzzi talento

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Lezioni di Tuzzi talento

Horns pair of Ovis Canadensis, credit Antiche Curiosità©

 

L’utilità dell’apparentemente inutile è, per ogni uomo, fondamentale, come insegna Montaigne. Disciplinarsi esercitando una ferrea autocritica, gettando via senza rimpianti le pagine non riuscite – talvolta, proprio quelle stese con la volontà di “scrivere bene” – e lasciando nel cassetto per uno o due mesi il lavoro finito, per poi rileggerlo senza farsi sconti. Insomma, la qualità e la continuità della pratica sono fondamentali. Senza dressage si dirazza.

Sono parole di Hans Tuzzi, al secolo Adriano Bon (Milano, 1952), scrittore e saggista italiano che non solo dà alle stampe un libro per dare dei consigli su come scrivere “un romanzo giallo o di altro colore”, ma nell’italietta dell’upper class che pubblica coi grossi per intercessione dei santi e di chissà chi altro, parla addirittura di “talento”, grossa parola scomoda:

Senza talento non c’è scrittore. Tutti abbiamo imparato a sciare, pochi sono saliti su un podio. Ma come educare il talento sino a salire su quel podio? Ricorda la battuta sul genio, che è in minima parte ispirazione, e in massima parte sudore? La si attribuisce ora a Edison, ora a Picasso, ora a Flaubert o Hemingway, e alcuni anni fa una ricerca condotta presso l’Università di Cambridge l’avrebbe confermato: le capacità che definiamo talento o genio sono frutto di una combinazione di abilità innata, istruzione di alto livello e tanto lavoro. Personalmente sono portato a credere che i misteriosi percorsi del patrimonio genetico individuale contino assai più del famoso 1%, e che altro aggiunga la storia personale di ognuno di noi, ma indubbiamente studio, curiosità, capacità di mantenere occhi e intelletto aperti sul mondo sono fondamentali.

In pratica Tuzzi fa capire che se hai talento puoi sfondare, detto in termini volgari, dopo essersi fatto una bella sciata, tipico sport da ricchi, quel “tutti” infatti si riferisce alla sua classe, ci sta dicendo tra le righe che, siccome lui ha talento, pubblica e può darci lezioni.  Eh sì, pubblica infatti con Boringhieri, un editore che nemmeno ti risponde se non ti presenta qualcuno.

La domanda a questo punto è: Caro Tuzzi, tu pubblichi con Boringhieri e altri perché hai talento oppure perché sei Consulente editoriale e docente universitario al master in editoria cartacea e multimediale all’Università di Bologna, uno degli atenei nepotistici più discussi d’Italia?

E rendici edotti, Tuzzi, se fossi stato un talentuoso pinko palla, Boringhieri ti avrebbe mai risposto e ti avrebbe pubblicato un libro in cui dici all’aspirante scrittore che prima di scrivere deve leggere? Davvero un pensiero originalissimo.

Noi pensiamo di no. Pensiamo che l’editoria sia in mano a pochi che diventano talentuosi qualunque cosa scrivano, anche quando abbaiano nelle guide del Touring Club che sarebbe più naturale guidare a sinistra che a destra, che la guida a destra, questione di esiziale importanza, sarebbe una prevaricazione dei destrorsi sui sinistrorsi, saltando bellamente di palo in frasca dall’Irlanda all’Islam:

Devo dire che la guida a sinistra mi riesce più naturale della nostra; alle origini del resto, le auto circolavano a sinistra, come per secoli avevano fatto su tutte le carrarecce d’Europa cavalli e carrozze, perché questo? Perché a cavallo si monta (e da cavallo si smonta) sempre dal lato sinistro… per gli islamici quella è la mano impura… Che poi il traffico delle automobili in quasi tutto il mondo si sia spostato a destra è una prevaricazione dei destrorsi sui sinistrorsi, o se preferite, dei dritti sui mancini… (H. Tuzzi, In Irlanda, il paese dei sognatori, Touring Club Italiano, p. 10)

Adesso che siamo a conoscenza che la guida a destra è una prepotenza dei “dritti”, possiamo dormire sonni tranquilli, l’editoria è in buone mani. E il fatto che questo stesso signore che si affanna a specificare che il potere dei destrorsi è contro natura, parli di genetica e talento suona ancora più falso e scandaloso in un Paese in cui per pubblicare con la grossa editoria ci sono due strade o vendersi alla politica oppure essere la politica.

Un docente universitario chiaro che non ha difficoltà alcuna a pubblicare, qualunque cosa scriva, peccato che il talento sia un dio piuttosto capriccioso e non appartenga esclusivamente alle classi alte, quelle che vanno a Cortina a farsi la sciata rilassante dopo una colazione in alberghi di lusso, ma questo povero talento va dove più gli aggrada e tocca con la sua mano chi vuole, non prende ordini da un professore né da nessun altro al mondo.

Poi l’urgenza del destino burocratico e perverso decreta che il talento di un professore universitario sia migliore di quello di chi non è nessuno, ma queste sono solo fandonie, è il bluff costante dell’editoria che premia chi occupa una posizione importante per il solo fatto di occupare quella posizione.

Cosa mai potrebbe insegnarci dunque sul talento un accademico che ha sempre avuto tutte le strade spianate e che scrive come di seguito elencato?

La ripetizione delle frasi, il martellamento di periodi già espressi in “Non un ricordo, non un pensiero né un’immagine” nel romanzo Vanagloria, sembra un volgare artifizio per aumentar le pagine del libro e lungi dal dar sferza al giallo lo rallentano sensibilmente.

Lo scimmiottamento del ”carofiglismo”, quel passaggio dal diegetico al mimetico senza i due punti e il virgolettato, non mostra minima similare incisività nell’incentivazione all’attenzione del lettore, tutt’altro: dà un’idea di sciatteria nello stile che indulge di per sé a colloquialismi poco eleganti, vedi ad esempio quel “niente niente, anche il professor Rost era della banda?”, dove tra l’altro non si capisce neanche la presenza dell’asindeto, poiché in una interrogativa diretta di impronta retorica tra l’avverbio introduttivo e il soggetto della proposizione non si interpone mai la virgola (“Forse anche il professor Rost era della banda?” sarebbe la formulazione corretta scevra di colloquialismo) e a trasandatezze nella punteggiatura come nella frase attigua: “In ogni caso, che brutta fine, poveretto” dove manca un fisiologico punto esclamativo.

Ma l’autore sembra capace di virare nello stile passando in “Gambetto di pedoni” anche a tentativi sinestetici che risultano comunque malriusciti; non si capisce come faccia un colore ad essere uguale al profumo delle sirene (“I fiori furono subito simbolo di armonia e di bellezza. Essi sono blu, come il profumo della sirena”): insomma una sensazione ottica rapportata ad una olfattiva! Le sinestesie dovrebbero esser terreno di poesia, peraltro, non di prosa. Persistendo, ad ogni modo, nella sciatteria della punteggiatura, come si evince in questo periodo ipotetico dove non esistono asindeti tra protasi ed apodosi (“Sulla loro esistenza resta un cielo velato, e se si osservano si pensa che il mondo sia stato creato solo come soluzione”) o in questa avversativa dove il “ma” non è preceduto dalla canonica virgola separativa della reggente (“All’inizio era non il nulla ma la soluzione, la sintesi del Creatore”), nonché nell’improvvisa scelta di anacolutiche prolessi delle interrogative indirette rispetto alla reggente come “e uno soltanto può cambiare colore secondo l’ora il luogo e il sentimento ed esso si chiama voi sapete come”, periodo che brilla anch’esso per assenza di asindeti.

Decisamente nulla può insegnarci costui sul talento!

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-psico-pillole/

https://www.youtube.com/watch?v=3iccz42Yfxs

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