Milan Kundera, “L’immortalità” insostenibile

Milan Kundera, "L'immortalità" insostenibile

Milan Kundera, “L’immortalità” insostenibile

 

 

Milan Kundera, "L'immortalità" insostenibile

Milan Kundera, “L’immortalità”, credit Antiche Curiosità©

Di Mary Blindflowers©

Milan Kundera, “L’immortalità” insostenibile

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Milan Kundera, classe 1929, è uno di quei signori che non concedono mai interviste e di cui lettori e critica sostengono che si tratti di un grande scrittore. Kundera, diventato noto con L’insostenibile leggerezza dell’essere, libro che lessi tempo fa, di fatto però non mi ha mai convinto del tutto. Detesto la sua straordinaria quanto cupa capacità di rendere difficile e complicato l’estremamente semplice, le sue digressioni pseudo-filosofiche, la sua incapacità di inventare una trama degna di questo nome, e la furbata di piacere a tutti elevandosi dal livello puramente commerciale attraverso l’escamotage un poco delirante della commistione tra saggistica e romanzo, tanto che a volte ci si chiede, leggendolo, se si è comprati un saggio di filosofia spiccia oppure un romanzo intimistico che cerca una identificazione universale, scadendo però talvolta addirittura nel gossip.

Detesto la preferenza dell’autore per vicende sbiadite che cercano la trasvolata verso l’alto tramite digressioni pseudo-dotte e la rappresentazione di personaggi spesso atoni e terribilmente noiosi.

D’altra parte però amo il suo stile, quel tipo di scrittura che mentre stai quasi per dire, basta! Butto il libro dalla finestra, perché la storia della protagonista è insignificante e mi procura il sonno, continui un attimo e ti accorgi che cambia finalmente registro e diventa quasi divertente. Il guaio è che questo divertimento dura un secondo ed è solo apparente perché la trasformazione dinamica scivola nella saggistica divulgativa da pettegolezzo pronto e cotto, con qualche altro arzigogolo filosofico che non guasta mai e rende scicchettosa la faccenda.

Il procedimento è chiarissimo ne L’immortalità, un romanzo diviso in cinque parti che secondo l’idea dell’autore dovrebbero essere sorrette ciascuna da un’idea profonda che ruota attorno al concetto centrale di immortalità, termine che dà appunto titolo al libro e che chiuderebbe il cerchio magico dell’ibrido letterario così concepito, un incrocio tra la storia opaca e tediosa di Agnes e la cronachetta pettegola degli amori di Goethe e Bettina con altri personaggi famosi di contorno, sentenze varie, soggetti storici pescati qua e là e discorsi perlopiù senza capo né coda.

Agnes, la protagonista è un personaggio il cui dinamismo si rivela solo nei pensieri, nei frammenti sulla sua vita vissuta, sul padre, sui ricordi, sul suo matrimonio. L’autore impiega ben 56 pagine a dirci che il personaggio ha un cattivo rapporto con l’ascensore, un matrimonio sbiadito e frequenta una sauna dove trova insopportabile il cicaleccio femminile. Niente trama dunque. In compenso Kundera si abbandona alla filosofia dell’arzigogolazione e del ricordo. Il personaggio rammenta frammentariamente la sua vita passata in una sequenza di banalità da ragazza della porta accanto che offre però occasione all’autore di filosofeggiare in libertà, ammettendo da solo che non esprime idee nuove, come se volesse prevenire le critiche:

Il Creatore ha messo nel computer un disco con un programma dettagliato e poi è andato via. Che Dio abbia creato il mondo e poi lo abbia lasciato in balia degli uomini abbandonati, i quali, quando si rivolgono a lui, parlano a un vuoto senza risposta, non è un’idea nuova. Ma una cosa è essere abbandonati dal Dio dei nostri avi, e un’altra essere abbandonati dal Dio-inventore del computer cosmico. Al suo posto c’è un programma che in sua assenza continua a svolgersi inarrestabile, senza che nessuno vi possa cambiare qualcosa…

Poi inizia a diventare banalmente pesante e pure filosoficamente ridicolo:

Nel programma ad esempio, non era specificato che nel 1815 ci sarebbe stata la battaglia di Waterloo e che i francesi l’avrebbero persa, ma soltanto che l’uomo è per sua natura aggressivo, che la guerra è il suo destino e che il progresso tecnico la renderà sempre più terribile. Tutto il resto, dal punto di vista del creatore non ha alcuna importanza ed è solo un gioco di variazioni e permutazioni di un programma definito nelle sue linee generali che non è un’anticipazione profetica del futuro, ma indica semplicemente i limiti delle possibilità… Così è stato anche con il progetto dell’uomo. Nel computer non erano programmati nessuna Agnes e nessun Paul, ma solo un prototipo chiamato uomo, in conformità al quale sono nati un gran numero di esemplari, tutti derivati dal modello originale e totalmente privi di essenza individuale. Così come ne è priva la singola vettura Renault, la cui essenza è depositata fuori di lei, nell’archivio centrale della fabbrica. Le singole vetture si distinguono solo dal numero di serie. Il numero di serie dell’esemplare umano è il volto, l’accidentale e irripetibile aggregazione di lineamenti… il volto è solo il numero dell’esemplare.

Tutto questo giro di parole per dire che non siamo padroni del nostro destino? Il volto poi diventa inspiegabilmente causa di differenziazione seriale, come il numero di serie dell’automobile. Il volto che dà il titolo al paragrafo, sarebbe “irripetibile aggregazione di lineamenti”.

I gemelli omozigoti allora? Il loro volto è lo stesso numero di serie o due numeri di serie diversi? Le piccole differenze tra due gemelli apparentemente identici possono essere paragonate ad un numero diverso?

Non si sa. L’irripetibilità diventa così concetto aleatorio, metafora contestabile.

Kundera scodella la dissertazione sul computer creatore a causa di una frase pronunciata dal padre di Agnes. Un appiglio per infarcire il libro di noiose digressioni servite ad un lettore che ha già assistito impotente alla critica letteraria sui versi che Agnes, la donna che amava gli occhiali scuri, recitava da bambina e che il padre le declamò prima di morire:

Ogni verso ha un numero di sillabe differente, c’è un alternarsi di trochei, giambi, dattili, il sesto verso è stranamente più lungo degli altri, e pur trattandosi di due quartine, la prima frase grammaticale finisce in modo asimmetrico nel quinto verso, creando così una melodia mai estinta…

Qua e là alcune sentenze assurde che ognuno può interpretare liberamente:

Più l’uomo è indifferente alla politica, agli interessi degli altri, più è ossessionato dalla propria faccia. L’individualismo del nostro tempo.

Il volto diventa veicolo universale di sanità e malattia, numero di serie da computer creatore e simbolo di individualismo esasperato. Un poco riduttivo.

La seconda parte del saggio-romanzo si intitola L’immortalità, ha lo stesso titolo del romanzo, ed è né più né meno che il gossip degli amori di Bettina e Goethe, a cui viene aggiunta una conversazione impossibile con Hemingway e la storia del famoso cappello di Beethoven, per poi condire la cronachetta con un pizzico di Tycho Brahe e di Ravel. Scritto tutto benissimo, non c’è che dire, ma il collegamento di tutto questo con l’Agnes della prima parte? Ah ma l’autore ce lo dice:

Con chi pensate che Goethe vorrebbe passare il tempo nell’aldilà? Con Herder? Con Hölderling? Con Bettina? Con Eckermann? Ricordatevi di Agnes. Del terrore che le incuteva l’idea che all’altro mondo le toccasse di nuovo sentire il brusio di voci femminili che sentiva ogni sabato alla sauna. Dopo la morte non desiderava stare né con Paul né con Brigitte. Perché Goethe dovrebbe desiderare Herder?

È chiaro che il collegamento è un pretesto per elucubrare liberamente. Il personaggio in Kundera così come la pseudo-trama, è la scusa per svagare qua e là, creare collegamenti improbabili e riempire le pagine di pettegolezzi camuffati da riflessioni profonde sulla vita e sulla morte.

Non sono sicura che la commistione tra gossip che finge di essere saggistica e romanzo sia poi una grande idea. Ne L’Immortalità non lo è sicuramente, è più un delirio e un esercizio di bella scrittura che un’opera ben riuscita. Tuttavia il successo di Kundera è la dimostrazione che non è vero, come dicono certi editori, che la scrittura di successo debba essere per forza omogenea. Di omogeneo Kundera non ha nulla. Questo potrebbe essere un pregio, perché rompe lo schema classico di una letteratura lineare, tuttavia ne L’Immortalità diventa un difetto perché le cesure non hanno una sufficiente elaborazione creativa ma si basano su storie già note, (la storia di Goethe non l’ha di certo inventata Kundera) il cui collegamento coi personaggi appare piuttosto forzato e meccanico, inoltre l’eccesso di sentenze e frasette filosofeggianti disseminate a valanga, infastidisce un lettore che è abituato alla saggistica e che leggendo un romanzo vorrebbe leggere un romanzo e non un saggio sconclusionato.

La parte terza ripete cose già dette nella prima parte, giusto per riempire gli spazi, aggiungendo qualche informazione nuova di scarsa importanza. Inoltre, siccome Goethe non bastava, e in qualche modo occorreva dare vita alle pagine, ecco Salvador Dalì che mangia ignaro il suo amico coniglio. Il collegamento di questo episodio con i personaggi è anche in questo caso forzatissimo per giustificare l’assenza di una trama creativa e attaccare un altro discorsetto sul corpo e poi sulla lotta e su argomenti tra i più disparati tra i quali non esiste veramente connessione alcuna. Si affacciano Hitler e Oriana Fallaci, Aristotele e Rubens, giusto per gradire, poi il fascismo di Mussolini, la primavera di Praga e il comunismo, predicozzi sui giornalisti e i deputati. Non manca nulla in questo minestrone, tranne il romanzo.

Un vero e proprio delirio di informazioni e periodi elucubranti che stancherebbero anche un santo, figuriamoci un povero lettore.

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