L’arte destrutturalista, una ferita

L'arte destrutturalista non consola, è una ferita

L’arte destrutturalista, una ferita

Di Mary Blindflowers©

L'arte destrutturalista non consola, è una ferita

Acefalo, pastel on paper by Mary Blindflowers©

 

Lo scopo del Destrutturalismo è la ricerca di un significato che vada contro il comune buon senso, e giocosamente destrutturi per ricostruire nuovi spazi di libertà e di denuncia che sfondino nell’oltre irripetibile. Si procede con l’inessenzialità del senso per due motivi, primo il senso a cui siamo mentalmente abituati, la normalità, è concetto aleatorio e inesistente, costruito ad hoc per l’anti-riflessione; secondo non è il senso un monolite ma un aspetto polisemantico dell’esistenza, sfaccettato, multifunzionale, adattabile, manipolabile, mai apodittico, decostruibile, smontabile, mai indefettibile e perfetto, dato che non esiste perfezione. Il senso quindi, così come viene inteso nel linguaggio comune, non è essenziale, e la sua debolezza strutturale rispetto al non-senso di chi pensa da solo e non con la testa altrui, con le parole altrui, con i libri altrui, può essere tranquillamente evidenziato da un moto artistico che cerca il suo particolare senso non elevato né elevabile a legge universalmente saggia, non accostabile a quell’imprinting che hanno le oche a cui piace tutto ciò che riconoscono come familiare. E il senso del movimento di pensiero destrutturalista, non è il senso in se stesso, dato che ognuno ha il suo, ma lo spazio stesso del cercare, quell’arte che si fa arte nell’arte della sperimentazione creativa e che ha come unico fine la destrutturante consapevolezza che il reale andrebbe sempre smontato per essere ricostruito, capito e non distrutto, ma smontato con la dialettica della letteratura, della poesia e dell’arte visiva. La ricostruzione ovviamente sarebbe sempre aleatoria, suscettibile di critica, e non si porrebbe mai come pietra miliare ma come elemento che si presta a ulteriori riflessioni. Non si danno dunque risposte.

La scrittura e l’arte diventano così realmente e felicemente incapaci di dare risposte. Si rifiutano di darle. Il loro compito è coltivare il dubbio e aprire nuove domande come fratture, come ferite che incidano profondamente il reale. Che lo strumento di incisione usato ossia lo stile, possa variare a seconda dell’autore, è normale in un mondo in cui l’unica regola fissa è la scoperta, la sperimentazione mai uguale a se stessa, mai seriale, mai commerciale.

Nel momento stesso in cui la creatività si pone l’obiettivo di assecondare il mercato, cessa la sua funzione artistica, perde completamente lo scopo, per adattarsi come acqua dentro un bicchiere ad una forma imposta da altri. Allora non destruttura più, non smonta, non riflette, ripete a pappagallo, riproduce in serie, per un certo tipo di massa, per dei fruitori a cui non importa nulla né della letteratura, né della poesia, né delle arti visive, optando per una scelta stereotipata che convince perché familiare, scaturita da una sorta di primitivo e animalesco imprinting. Fotografare il reale, lasciandolo così com’è, sistemare il cavalletto sulla riva di un fiume per riprodurre il paesaggio come in una foto; scrivere la cronaca asettica degli avvenimenti, seguire il filo della corrente che ti dice si fa così, significa rinunciare all’oltre.

La sperimentazione non è mai troppo popolare, se lo diventa accade per via di un certo investimento economico, se l’investimento in termini di denaro, è deficitario si rischia l’invisibilità. La sperimentazione con la rinuncia totale alla serialità, alla mera riproduzione del déjà-vu, con il rifiuto dell’idea che sia già stato detto, scritto e fatto tutto (cosa impossibile perché il mondo è in continua trasformazione ed evoluzione costante), è dunque rischiosa. Uscire dai binari tracciati da altri non è mai un atto di convenienza. C’è il rischio di essere ignorati perché non omologati, di essere snobbati da chi non riconosce un’impronta familiare in ciò che si fa e la familiarità, l’agnizione, per una massa abituata a capire solo ciò che viene pubblicizzato dai belati dei media, diventa essenziale.

Il fiore dentro un vaso lo capiscono tutti, se disegni paesaggi tutti uguali e di colori vari, vendi; se scrivi con uno stile piatto realistico e cronachistico, fingendo di essere uno scrittore, banalizzando la realtà in trame elementari e poi correndo in tv col tuo partito, la gente si sente coinvolta, perché non si tratta di una produzione dalla difficile interpretazione e perché vede e riconosce la tua faccia. Non occorre pensare. Pensare costa fatica, chi ti fa pensare è ostracizzato, bannato.

Ma chi è questa gente che non vuole pensare e che viene definita massa?

Sono lettori, sono amanti dell’arte?

No, sono consumatori, sono numeri, sono utenti televisivi che pagano il canone per sorbirsi l’apologia del nome. I numeri comprano ciò che gli viene detto di comprare e plaudono alle verità ufficiali.

L’arte però non andrebbe consumata, applaudita, comprata, andrebbe vissuta, analizzata, amata. Per amare qualcosa la devi capire.

Chi è che non ama i fiori?

Tutti amano i fiori anche se non tutti riflettono sul fatto che un vaso di fiori che sia fine a se stesso, è solo un mero esercizio di stile che non ha significato alcuno nell’epoca della fotografia.

Lo stesso accade per i libri, un libro che dice soltanto ciò che scrive, non dice niente, non buca la superficie, è un libro inutile.

Sotto la superficie del ghiaccio fa freddo, è confortevole pensare che ci siano scrittori che scrivono senza scrivere, artisti che dipingono senza significare, ma il conforto non è arte. L’arte non è conforto, non è una medicina, è una malattia che segnala altre malattie, è una ferita da cui sgorgano come sangue, proprio come in una ferita autentica, significati sempre diversi, mutevoli, che ti fanno fermare e dire, ora voglio pensare, ora voglio soffrire, ora voglio farmi bene e male, voglio capire da solo il mio senso, giudicando inessenziale quello imposto.

Pensare ha un costo che non tutti sono disposti ad affrontare, perché è facile comprare qualcosa di bellino e fruibilmente ornamentale coi soldi, ma la capacità di riflettere non ha prezzo, non è commerciabile.

Chi destruttura pensa e fa pensare, forse è poco in un mondo dominato dai soldi e dall’opinionismo spiccio di massa, ma è un poco a cui non mi sento di rinunciare perché è l’essenza stessa di ogni atto creativo.

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-psico-pillole/

https://www.youtube.com/watch?v=Cd_59SCLlZY

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