Michele Vaccari, “un marito” dell’acquiescenza

Michele Vaccari, un marito dell'acquiescenza

Michele Vaccari, “un marito” dell’acquiescenza

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Michele Vaccari, un marito dell'acquiescenza

Il pantano, credit Mary Blindflowers©

 

Un individuo normale, di sana e robusta costituzione, come dicono i medici, ha la potenziale capacità di formulare dei ragionamenti e soprattutto di porsi domande più o meno esistenziali su se stesso, sul mondo circostante, sul pianeta in cui vive ed opera.

Non si sa perché di fronte alla prospettiva del dubbio, dello stimolante quesito, ci siano scrittori che preferiscano agire “di pancia”, abolendo qualsiasi ragionamento sensato in virtù dell’autorevolezza conferita loro dal fatto di essere riusciti a pubblicare con la grossa editoria.

Abbiamo assistito ad una conversazione su Instagram in cui il soggetto X posta un commento sotto il libro del soggetto Y con una nota critica per l’editoria che conta. Y ha reagito senza ragionare dicendo a X di essere intervenuto senza conoscere il libro, la sua storia, chiamandolo ignorante da quattro soldi che parla senza sapere nulla.

Y presume che X non abbia letto il suo libro.

Ma che cosa glielo fa pensare?

Non ha basi certe su cui formulare la sua ipotesi, non conosce X, non ha mai avuto a che fare con lui, quindi non ha elementi per poter presumere una mancata conoscenza. X infatti potrebbe anche aver letto il libro, cosa che poi confermerà, quindi sta parlando con cognizione di causa, non per sentito dire, ma per esperienza diretta.

Non contento, Y continua, arrivando all’assurdo. Si abbandona a un’affermazione senza senso: il commento di X, postato pubblicamente su un social, sarebbe fatto “alle spalle”, nella convinzione che nessuno avrebbe risposto.

Di fronte a questa sciocchezza ci si pongono serie domande.

Come fa un grosso editore a pubblicare uno così geniale da sostenere che un commento pubblico sia un atto concepito subdolamente per colpire alle spalle l’interlocutore? Se il commento è pubblico significa che lo vedono tutti e se è stato postato pubblicamente significa che chi lo ha postato vuole che lo vedano, altrimenti avrebbe rilasciato il commento soltanto in privato. Un concetto elementare, che anche un bambino comprende. Eppure Y, scrittore della grossa editoria, non ci arriva.

Come fanno i grossi editori a pubblicare un soggetto del genere che non sa nemmeno sostenere una conversazione di poche righe senza dire castronerie?

Ci siamo incuriositi e abbiamo ripreso in mano un libro che purtroppo abbiamo avuto la sfortuna di comprare non molto tempo fa, il libro di Y, alias Michele Vaccari, intitolato “Un marito” e pubblicato niente po’ po’ di meno che dalla Rizzoli.

La trama è essenziale. Ferdinando e Patrizia sono sposati e hanno una rosticceria. Con uno stile piatto e ordinario, si descrive la loro vita abitudinaria. Quando i due personaggi tentano la fuga dalla dittatura della quotidianità, accade l’imprevisto, la tragedia, lo scoppio della bomba che darà la morte.

Si tratta di una storia qualunque, di una trama abbastanza convenzionale e anche un po’ tediosa. La classica scrittura piatta tanto amata dalla grande editoria, perché non contiene sorprese che possano spiazzare il lettore, che possano attivargli due neuroni con qualche sano dubbio. Il finale è prevedibile. Nonostante l’omissione centrale, in cui l’autore rimanda la spiegazione, si intuisce comunque tutto. Non c’è sorpresa, per lo meno noi non siamo rimasti sorpresi. Fila tutto esattamente come si si aspetta che fili.

Del resto perché sorprendere un lettore stordito dal marketing? A che scopo? Basta il nome Rizzoli a far comprare un prodotto. Ma l’aspetto più inquietante di questo testo non è dato dai dialoghi piuttosto elementari, dallo stile senza impennate, dalla semplicità infantile della trama, adatta a un lettore semplice, ma dal messaggio:

“Ho deciso che dagli interrogativi, dagli “e se”, soprattutto, bisogna scappare perché inquinano la felicità che già c’è e di cui dobbiamo essere appagati, anche quando non lo siamo. I dubbi, le novità, gli imprevisti che senti in giro siano il senso dell’esistenza, per me la corrodono, la uccidono, mettono in ombra il bello che avevi e che avevi deciso lo fosse più di qualsiasi altra cosa al mondo”.

Il messaggio è che bisogna rassegnarsi al grigiore della quotidianità? Che occorra essere pecore rassegnate al proprio destino, altrimenti si rischia una tragedia? Lo scoppio di una bomba? Che dobbiamo fingere appagamento anche quando non ne abbiamo? I dubbi e le novità sono banditi come pericolosi perché ucciderebbero il senso dell’esistenza?

Questi sono i prodigiosi insegnamenti che veicola la grande editoria? Che per non correre alcun pericolo dobbiamo stare come stiamo e che la via della bellezza ci è preclusa? Che non dobbiamo nutrire dubbi? Quale sarebbe questo senso dell’esistenza che l’autore vuole comunicarci? Che dobbiamo vivere senza pensare? Senza mai desiderare qualcosa in più?

Un messaggio socialmente pericoloso che invita le persone alla rassegnazione del non pensiero, all’abolizione del dubbio.

Quando smetti di desiderare e di avere dubbi sei già morto.

Allora che cosa costruisce questa nuova letteratura? Un’auspicata società di morti viventi? Che morale spiccia ci impartisce? Che dobbiamo ubbidire alla routine che il potere ha voluto per noi? Che meglio implodere che esplodere? Perché la bomba, parliamoci chiaro, è la metafora lampante di un’esplosione causata dalla novità. Senza il desiderio di evadere dalla quotidianità non sarebbe morto fisicamente nessuno. Quindi il libro ci dice, turatevi il naso, e andate avanti con quello che avete. Il ritratto perfetto di un’Italia dove tutto cambia senza che niente cambi. Questo tipo di produzione letteraria è gradita alla politica perché è il suo specchio perfetto, il cambiamento che non cambia. Se cambiasse sarebbe un disastro. Siamo inorriditi dalla acquiescenza di questa morale che annulla l’arte e il genio creativo. Senza il desiderio della novità e della scoperta staremmo ancora con la clava, chiusi nel buio delle nostre caverne. Il dubbio fa paura, la novità anche, ma è il sale della vita. Se levate a un uomo libero i suoi dubbi e il desiderio di cambiare, lo avete ucciso.

Il messaggio a noi non piace per nulla. Non ci piace nemmeno quando il personaggio dice che rimarrà sempre uguale nonostante qualche cambiamento, perché ha la fissità di una pietra miliare, non ha il minimo dubbio su se stesso. La strategia narrativa è tutta completamente giocata sulla superficie, frutto di un’introspezione spiccia e pedantesca, che tratteggia personaggi che sembrano macchiette suburbane senz’anima. Man mano che si avanza nella lettura il testo si carica di una sovrabbondanza elencativa che sinceramente l’autore poteva risparmiarsi benissimo, soprattutto perché il barocchismo che ci può stare, non è qui affatto simbolico, non ha un senso che vada oltre la parola scritta, non sottintende qualcosa tra le righe, ma diventa un arido elenco del telefono che riempie la pagina, tanto per fare, per dirci che la felicità è abitudinarietà e che chi si accontenta gode. Siamo alla ditta state buoni dentro l’ovile?

Siamo troppo anarchici per poter accettare questo concetto senza ribellioni. A noi sembra proprio la base dei regimi totalitari, non l’afflato di un artista libero.

E va sottolineato quanto alla forma che in un solo capitolo abbiamo contato 16 aporie strutturali e stilistiche! Figuriamoci nel resto del libro! Se Vaccari ha il target di mostrarsi crudamente colloquiale e gergale ci è riuscito benissimo; a noi questa omogeneità verso un italiano da strada fa venire l’orticaria! Ci perdoni! Non acquisteremo mai un altro suo libro!

  1. Si comincia con una bugia; non è vero che Marassi è l’unico quartiere del mondo in cui c’è attiguità tra stadio e carcere; nell’isola di Capo Rizzuto c’è la stessa cosa! Ad Ardea idem;

  2. era di pomeriggio, era un seienne, era in bicicletta”: l’anafora risulta pesantissima; una variatio renderebbe decisamente più agevole il passaggio: “di pomeriggio, a sei anni, girava in bicicletta”;

  3. Torrente: di quale torrente che bagna Marassi si tratta? Il Bisagno? Il Fareggiano? Perché usare la lettera maiuscola di un nome proprio con un sostantivo comune di cosa?

  4. Passiamo di qui che facciamo prima”: terribile gergalismo; intanto ci vorrebbe l’accento su che, ad indicare una congiunzione causale (Passiamo di qui, perché facciamo prima), il che senza accento suona come pronome relativo e non si è mai visto un relativo riferito ad una parte del discorso differente da un sostantivo (di qui), ma ciò che conta è che un italiano corretto richiederebbe: “Passiamo di qui per guadagnare tempo”;

  5. L’imponenza delle due architetture lo avevano fatto sentire un organismo acquatico infinitesimale”: incredibile coordinazione di una terza persona plurale dell’imperfetto indicativo con un soggetto singolare! “L’imponenza delle due architetture lo aveva fatto sentire un organismo acquatico infinitesimale”

  6. Al cospetto di quei colossi, provava deferenza”: non si scevra mai con l’asindeto il verbo riferito al soggetto della frase dal complemento di luogo cui si riferisce: “Egli provava deferenza davanti a quei due colossi”;

  7. Cresciuto tra vecchie mulattiere, che conservavano nel nome il loro senso d’appartenenza al bestiale (salita dell’Aquila, via del Camoscio, via della Pantera, piazza della Scimmia), Ferdinando, da quando l’amore per Patrizia l’ha riportato alle sue radici, ha visto risorgere dentro di sé un attaccamento ferino a quella Marassi”: se il racconto è strutturato col passato prossimo, la relativa dipendente dalla narrativa richiede il presente indicativo e non l’imperfetto indicativo, tempo collegato ad un passato già remoto; oltretutto, le mulattiere di Marassi non hanno mai cambiato il proprio nome, pertanto esse conservano tuttora il proprio senso d’appartenenza al bestiale.

  8. Patrizia controlla nella borsa di avere il portafogli chiuso”: altro colloquialismo pessimo; si controlla se il portafogli in borsa sia ben chiuso; il verbo controllare aborrisce la dichiarativa in forma infinitiva alle dipendenze!

  9. Patrizia entra nell’auto, si siede e tira fuori il suo quaderno con le ricette e le cose da comprare. I filoni. Doveva ricordarsi di passarli a prendere. Chissà se il pastore era stato di parola. E se a mentire era stato il macellaio? La cima non era cima senza i filoni. Ferdinando mette in moto mentre Patrizia stila l’ordine di cottura delle pietanze: incredibile mix di narrazione al presente ed all’imperfetto! Errori da scuola elementare!

  10. «Cos’hai?» altro colloquialismo, anziché il regolare “Che cos’hai?”;

  11. Mi hai chiesto cosa avevo e te l’ho detto.»: come sopra anziché “Mi hai chiesto che cosa avessi e te l’ho detto”;

  12. Meglio che stacco prima che mi prenda un colpo”: ennesimo colloquialismo: “Meglio che stacchi prima che mi prenda un colpo”;

  13. «Non è quello che penso io che conta.: il pronome relativo deve riferirsi al sostantivo che immediatamente lo precede; e qui non c’è un sostantivo, ma un pronome personale; la frase corretta sarebbe : “Non è quello che penso io ciò che conta”;

  14. La domenica non puoi andare da nessuna parte se poi hai martedì mercoledì e via dicendo che devi stare chiuso là dentro”: ancora colloquialismi di bassa lega; che cos’è quel che? Pronome relativo, congiunzione causale, congiunzione dichiarativa? Non si capisce! Il periodo richiederebbe una normale congiunzione temporale in ipotassi oppure una semplice coordinata: “La domenica non puoi andare da nessuna parte se poi hai martedì mercoledì e via dicendo quando devi stare chiuso là dentro” ovvero : “La domenica non puoi andare da nessuna parte se poi hai martedì mercoledì e via dicendo e devi stare chiuso là dentro”;

  15. «Ci sono anche tipo quelle cose che chiamano ponti per le ferie. Non so se hai presente.» «Fammi pensare. No, mi spiace. Non li conosco: qua si pesca a piene mani nel colloquialismo con l’inserimento di quel sostantivo “tipo” prolettico del soggetto della frase (“quelle cose”);

  16. A te tutti ti fanno i complimenti. A me mi guardano e mi fanno i complimenti per te”: confessiamo! Abbiamo avuto troppe bacchettate sul palmo delle mani dalla maestra quando dicevamo “a te ti” o “a me mi”! Non siamo avvezzi ai livelli borgatari di dialogo! Questo è un lessico da “Semo gente de borgata” con tutto il rispetto!

Un libro da perdere, caro Y.

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-psico-pillole/

https://www.youtube.com/watch?v=0XW9XN_vDaA

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