Di Pierfranco Bruni©
Come il poeta dei Cantos noi difendiamo le nostre idee vincenti o sconfinati come possono essere o sconfitte, ma sono le nostre idee, che hanno la nobiltà della conoscenza e di un sapere che ci deriva dalla sacralità di quella tradizione che vive perché intercede con il mito. Non può esserci sacro senza il mito. Ovvero non può esistere Grecia senza Roma e viceversa ed entrambe non possono convivere senza Gerusalemme. Le idee sono l’acqua del nostro cantico quotidiano e in questo cantico ci sono i cantici che porgono le loro brocche in una metafora che è sempre nell’includenza di una metafisica dell’anima.
Certo noi siamo per la ragione poetica, come dice Maria Zambrano, perché è la tradizione che vince e quando questa viene accantonata o viene separata dal resto si assiste alla recita dell’impotenza in un teatro che non è né pirandelliano né ioneschiano ma precipita in un Kafkiano applauso in cui l’assurdo di Camus prende il sopravvento. Siamo nell’assurdo e comunque siamo in una confessione impolitica come direbbe Thomas Mann.
Ma chi sa se gli applausi dureranno nei secoli? Siamo convinti, però, che cadute le maschere non ci sarà più il recitativo dell’uno nessuno e centomila ma di una recita a soggetto in cui si assisterà, in modo macabro, senza estetica dannunziana al trionfo della morte. Anche in politica o nella politica della contemporaneità si attraversano questi attanagliamenti. C’è del macabro e non dell’ironico nella politica dei nostri giorni. C’è una forma di ignobile mediocrità che a volte tocca le corde dell’inverosimile. Ma il tempo della modernità è una disarmonia anacronistica. Una modernità che sembra incancellabile che domina lo scenario. Abbiamo vissuto anni lunghi e stagioni corte ma abbiamo cercato di individuare l’indefinibile per trasformarlo nel possibile e l’intreccio tra politica e cultura ha vissuto il suo dramma e continua a vivere il suo dramma, ma noi imperterriti siamo convinti che una buona politica non può che nascere da una cultura che abbia la sua singolare sapienza nella saggezza. Siamo figli di Seneca ma anche di Cristo. Siamo consapevoli di Cicerone ma siamo anche convinti assertori di Agostino. Difendiamo Giuda ma camminiamo sui solchi di Paolo. Siamo consapevoli che Nerone abbia incendiato la sua coscienza di un fuoco fatuo ma non nascondiamo la sua eredità da Caligola.
Siamo dentro quell’al di là del bene e del male testimoniato da Nietzsche ma siamo i portatoti di quel concetto di salvezza di matrice, certamente, evangelica rimarcato da Dostojevski in una cristianità kierkegaardiana e ci sentiamo portatori di una eredità che è quella dell’antico ritorno e di una Itaca che continua a parlare il suo linguaggio in una provvidenza e profezia che vedono Enea come protagonista nell’annuncio di un’era cristiana. E tutto questo è dentro il cerchio, il quale ha la sua allegoria vichiana che ha rimandi e trapassi. Siamo oltre ma siamo anche dentro. Siamo altrove ma siamo anche prima di questo altrove. Ecco come la tradizione ritorna nelle sue distinzioni. Le distinzioni ci sono, e perché non dovrebbero esserci, noi siamo i combattenti non della verità ma della consapevolezza che ci sono le verità ma queste verità non possono dialogare soltanto con la ragione perché la ragione porterebbe all’impazzimento dell’incomprensione senza la sintesi di Erasmo di Rotterdam.
La tradizione è la spiritualità di una civiltà che si fa anima, cuore, viaggio. Siamo qui per dare il senso, appunto, ad una testimonianza e durante questi anni difficili ci siamo incamminati tra le vie del nostro pensare con le parole che avevamo, con le scuole che avevamo vissuto e con i maestri che ci hanno indicato le lune da seguire nelle notti buie di vento e con i mari che avevano l’ululato delle tempeste. Ne siamo usciti, dalle tempeste, fortificati con il coraggio che ogni scelta ha dentro di sé il rischio, non di vincere, ma di perdere e di smarrirsi.
Noi non ci siamo perduti, forse ci siamo smarriti qualche volta. ma ci siamo sempre ritrovati perché sappiamo che guardare sempre negli occhi e tenere alte le vele nel mare aperto ci permette (ci permetterebbe) di proseguire lungo il nostro andare. È vero, chi vive ha il dovere di testimoniarsi per ciò che ha fatto per ciò che fa. Resta agli altri raccogliere questo seme. Noi siamo seminatori, non abbiamo mai pensato di raccogliere granelli di terra. Il nostro compito continua ed è quello di seminare. Seminare con la bellezza dell’ironia e nel rischio che ci porta il coraggio di dire sempre e ovunque la nostra, dico la nostra, possibile verità. Una sfida di verità e nel tentativo delle verità. In queste verità la letteratura e l’arte sono il sottolineato di un mistero che non smetterà mai di restare tale.
Ecco allora il nostro cerchio. Questo cerchio infinito che non è fatto solo di parole ma di amicizie, di affetto, di amore e di un sorriso che ha la forza degli uomini che non abbandonano le proprie zattere lungo la traversata anche in vista dei nubifragi. Così è al di là di tutto oltre tutto. Noi siamo il cerchio che è magia nella sacralità. Una sacralità nella quali ci sono gli sguardi, gli occhi, la vita. Ciò è la verità di una antropologia che assorbe i simboli e le metafore nel racconto di una cultura che è esistenza. Occorre recuperare le antropologie delle civiltà per superare il tempo degli sradicamenti.
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