Il riso, tra letteratura e marketing

Il riso, tra letteratura e marketing

Il riso, tra letteratura e marketing

Di Mary Blindflowers©

Il riso, tra letteratura e marketing

Sardegna, credit Mary Blindflowers©

 

Nel 1758 Giovan Battista Spolverini pubblicava “La coltura del riso”, un carme di circa 500 pessimi versi: “E dono alto del ciel, candido Riso, solo tra tanti in mille e mille carmi, lodati semi non ancora descritto Cantar intendo; Te sopra ogni grano, tanto pregiato più dopo il Frumento, Quanto ad ogni metal dopo il lucente Oro prevale il puro argento…”. Il testo tratta in versi la questione delle origini, della coltivazione e della cura del riso e della risaia.

Più critico e poeticamente vivace e talentuoso è invece Giuseppe Parini nell’ode “La salubrità dell’aria”, che analizzava le conseguenze dell’indiscriminata risicoltura in Lombardia, causa di grave inquinamento ambientale. Per puro interesse, gli aristocratici proprietari terrieri, diceva Parini, erano arrivati a piantare il riso fin sotto le mura della città di Milano, esposta al fetore delle acque stagnanti e fangose. I contadini venivano costretti a orari di lavoro massacranti per una paga da fame, pallidi a causa del mal nato riso:

Péra colui che primo

a le triste oziose

acque e al fetido limo

la mia cittade espose;

e per lucro ebbe a vile

la salute civile.

Certo colui del fiume

di Stige ora s’impaccia

tra l’orribil bitume

onde alzando la faccia

bestemmia il fango e l’acque

che radunar gli piacque.

Mira dipinti in viso

di mortali pallori

entro al mal nato riso

i languenti cultori;

e trema, o cittadino,

che a te il soffri vicino…

Anche il Fogazzaro di Piccolo mondo antico nominava “il risotto ai tartufi”, capitolo I, il piatto dell’ipocrita aristocrazia:

“I fumi delle casseruole riempivano la sala di tepide fragranze. Risotto no, disse piano l’avanguardia. Risotto sì, rispose sullo stesso tono la retroguardia. E così continuarono, sempre più piano, risotto sì, risotto no, fino a che Pasotti spinse l’uscio della sala rossa, abituale soggiorno della padrona di casa…”

I futuristi invece nel riso non videro il simbolo dello sfruttamento sociale, aspetto che trascurarono, ma esaltarono il riso come alimento contro il passatismo:

“Sentiamo la necessità d’impedire che l’Italiano diventi cubico, massiccio impiombato da una compattezza umana e cieca. Si armonizzi, invece sempre più coll’italiana, snella trasparenza spiralica di passione, tenerezza, luce, volontà, slancio, tenacia eroica. Prepariamo una agilità dei corpi italiani… Convinti che nella probabile deflagrazione vincerà il popolo più agile, noi Futuristi, dopo aver agilizzato la letteratura con le parole in libertà, svuotato il teatro dalla noia, creato lo splendore geometrico architettonico senza decorativismo, la cinematografia e la fotografia astratte, stabiliamo ora il nutrimento adatto ad una vita sempre più aerea e veloce. Crediamo anzitutto necessaria l’abolizione della pasta asciutta, assurda religione gastronomica italiana”.

Del riso ha parlato anche Maria Antonietta Torriani alias la Marchesa Colombi che nel suo romanzo In risaia ha levato la sua voce di denuncia sulla condizione delle mondine. Carlo Emilio Gadda in Dalle mondine, in risaia Saggi Giornali Favole, Milano 1991, ha descritto il lavoro necessario per coltivare il riso:

“[…] Una linea, da lontano, come di un reparto che avanzi, a schiene curve. Talora i grandi cappelli di paglia, tant’è il riverbero, ti paiono galleggiare nell’acqua. Dietro ci sono le capisquadra, ritte e dietro ancora il padrone, cioè il conduttore del fondo: con gli stivali di gomma, col lungo bastone di comando onde si sostiene lungo gli argini… Sono argini di mota, larghi tre palmi, alti tre, viscidi sotto la scarpa… E l’acquaiolo va intorno, come un ragazzo di Gemito, con un suo barilotto sullo stomaco: porge a bere con un mestolo di ferro stagnato alle donne, spillando ogni volta da quel barile. Bevono l’una dopo l’altra… hanno la sottana rincoccata, sopra i ginocchi, scoprono le carni, ancora calde e desiderabili, talora sono calzate di una calza grigia e bagnata, senza piede, che protegge i polpacci dal filo tagliente del riso: o forse dalle zanzare. Il cappello, come un ombrellone generoso, le ripara dal sole. Il giorno avanti, le piantine di riso, a mazzetti, verdissimi cespi, sono state distribuite per tutto il campo, livellato in modo perfetto, con poche dita d’acqua… Ora le donne afferrano le piantine, una dopo l’altra: procedono lente senza mai levare la schiena: fatta una cava nella melma, col pollice e l’indice vi affondano le radici del cespo… Si appoggiano con il gomito sinistro al ginocchio, lavorano solo con la mano destra. Avanzano lente, perennemente chine. La linea dapprima diritta, si snoda poi, procedendo, con seni, e punte verso l’avanti, in ragione delle diverse velocità di lavoro. Una squadra si affanna ad emulare o a superare la contigua: una squadra si spicca in avanti: e ne va rotta la continuità della linea. Vuole arrivar prima a tutti i costi. Vuol fare lavoro doppio in egual tempo: semina il grosso dietro di sé, la vedi lontana e sola nel campo, come una pattuglia di arditi. Il padrone grida allora che non vuole, che gli importa il lavoro ben fatto. E quella, ebbra del suo canto, non sente. Il canto, un po’ nasale, va e viene, come a folate, sul rettangolo immenso della risaia…”

Ma come mai in nessun carme o componimento del passato si parla dell’ormai più che famoso riso Venere?

Il riso oggi è un alimento comunissimo e dal basso costo, ma siccome l’amore per il profitto non è mai morto e le classi sociali non sono state abolite, la genetica ha creato un riso per ricchi che non esisteva e che in Italia viene pubblicizzato come grande bontà culinaria, come l’eccellenza dei risi, il prodotto che non può mai mancare sulla tavola di gente raffinata, chiamato furbamente riso Venere, come la dea della bellezza. Si tratta di un riso nato dall’incrocio di vari tipi di risi di origine italiana e asiatica. Il genetista che lo ha creato nel 1997 è cinese, sembra che si chiami Wang Rue Xeng. La letteratura del passato non ne parla perché è nato di recente. La pregevole creazione viene coltivata in Piemonte e Sardegna. Il riso Venere è duro come la pietra, è carissimo, non ha un sapore che ne giustifichi un prezzo così alto, tutto questo profumo di cui parla la pubblicità è praticamente inesistente, e dopo 15 minuti di cottura è perfettamente crudo, anche dopo mezz’ora è crudo, tant’è che sarebbe opportuno prendersi un giorno di vacanza per riuscire a cuocerlo in modo adeguato, ma si chiama come la dea della bellezza, è pubblicizzato come se fosse il riso migliore del mondo, naturale e sanissimo, invece oltre ad avere un sapore discutibile e per nulla speciale, è, al fin della ripresa, un prodotto che in natura non esisteva, creato dall’uomo in laboratorio per la gioia del marketing e della pubblicità che riescono a farci comprare quello che vogliono, perfino l’oro colato creato dentro un laboratorio, promettendoci salute e prosperità.

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-punti-fermi/

https://www.saatchiart.com/maryblindflowers

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