La morte della dialettica

La morte della dialettica

La morte della dialettica

Di Mary Blindflowers©

La morte della dialettica

La vespa e il cardo, credit Mary Blindflowers©

 

Data una tesi ecco un’antitesi, dall’interazione argomentativa di entrambe nasce la dialettica, antico metodo filosofico oggi pressocché sconosciuto. La dialettica infatti porta con sé degli inevitabili elementi di contrasto che determinano lo scontro di due posizioni diverse.

La dialettica socratica aveva il preciso compito di indagare sulla verità. È con i sofisti che diventa eristica, ossia la volgare e fallace arte di vincere nelle discussioni, indipendentemente dal valore di verità intrinseca contenuto nelle affermazioni. Così mentre la dialettica approfondisce, l’eristica pattina sulla superficie di asserzioni anche prive di significato.

La dialettica consente di avere una visione del mondo aperta, apparentemente contraddittoria, infatti come sosteneva Plotino: “considera il bene e il suo contrario e le loro specie subordinate, definisce l’eterno e il suo contrario, procedendo in ogni caso scientificamente e non con l’opinione».

Ora dati due interlocutori di cui uno, illustre sconosciuto, pensa di esser conosciuto, l’altro, sconosciuto, sa di essere sconosciuto, in uno scontro tra illusione e consapevolezza, ciascuno sostiene una tesi contraria all’altro. L’illustre sconosciuto che pensa di esser conosciuto, ad un certo punto della discussione, non avendo molta dimestichezza con la scientifica arte della dialettica, sposta l’attenzione dalla tesi principale per concentrarsi sull’interlocutore avversario, denigrandone l’importanza e sottolineando di non poter più rispondere con altre argomentazioni perché tale interlocutore sarebbe uno sconosciuto, insomma persona senza quell’autorevolezza caduta da concentrazioni di potere super-egotico, che farebbero di lui un soggetto importante, noto e ammirato. La dialettica cede il passo, viene scalzata da un atteggiamento di infantile superiorità che porta al vicolo cieco. La discussione si scioglie come neve al sole. Ha perso l’imparzialità scientifica propria di ogni serio confronto per farsi contaminare dal gossip e dall’urgenza del nome importante, dalla necessità impellente di avere ragione per partito preso, senza nemmeno uno straccio di dimostrazione o ragionamento.

Eppure la differenza tra parlare e ragionare era chiara fin dai tempi di Girolamo Ruscelli, il quale nella prefazione al suo famoso rimario, “Del modo di comporre in versi nella lingua italiana”, così si esprimeva:

“il ragionare poi, vogliono che sia quando le parole non si lasciano uscire, o cader da se stesse, come le spingono fuori o la motrice Natura di chi non sta mai star queto… Ma che quello sia veramente ragionare quando le parole si mandan fuori dall’intelletto, con la scorta della ragione, che così nei pensieri come nella forma e nella disposizione del suono, e della significazione delle voci le accompagni fino all’uscir dalle labra, one né ella né alcun’altra virtù terrena può richiamarle o ritrarle, poi che sono uscite. E da essa ragione, vogliono molto ragionevolmente i più giudiciosi che sia formato nella nostra lingua il verbo o la voce ragionare… Onde moltissime volte parlare si prende per ragionare…”1.

Parlare non è dunque ragionare. Spesse volte nemmeno la scrittura si traduce in ragionevolezza.

L’abbandono della dialettica che oramai si riscontra in tutti i campi, specialmente in editoria in cui di tanta, troppa produzione scritta irragionevole si può dire tutto tranne che sia scrittura. Il logoramento dialettico è una della cause della decadenza mentale di una società liquefatta, sciolta nei suoi elementi essenziali, depauperata della sua capacità di reagire alla passività dei bombardamenti d’autorevolezza provenienti da un sistema sempre più corrotto che dona etichette come simboli di potere da esibire per un popolo che segue la corrente. La soppressione del confronto è anche la causa di un certo snobismo culturale per cui è ormai verità assoluta e incontrovertibile il fatto che solo coloro che vengono investiti di autorevolezza, ossia solo coloro che hanno un marchio controllato sulla fronte chinata da buoi aggiogati, possano e debbano parlare, tutti gli altri, come diceva Eco, il fu noto principe accademico degli snob, sguazzerebbero nella condizione di emeriti imbecilli. E i primati che snocciolano caramelle di sapienza sul trono della verità con la v maiuscola non esprimerebbero opinioni, perché siccome sarebbero autorevoli in virtù di un dietro le quinte che non si vede e non si deve vedere, essi sono la verità e la vita, meglio di Cristo redento, perciò non possono essere contraddetti. Così il valore di un ragionamento non si evince dalla sua intrinseca portata culturale, dal suo essere verità in se stesso, dalla capacità dialettica e dalla profondità che esprime, ma dall’altare da cui viene pronunciato; lo stesso dicasi dei libri e dell’arte, non conta il messaggio ma chi lo scrive, chi lo mostra e soprattutto chi sta dietro chi lo scrive e chi lo mostra. Questo atteggiamento si riflette anche nella pubblica opinione, dove domina la prevalenza di una sorta di eristica spiccia e da specchio in cui ciò che conta non è il contenuto ma l’effetto sullo spettatore, non è capire ma interpretare una parte. Così anche un illustre sconosciuto potrà fingere durante lo svolgimento del suo ragionamento eristico, di essere una voce autorevole perché riflette opinioni gettate in pasto alla società da scrittori o personaggi ritenuti a furor di popolo e di partiti ormai presi e lisciati, autorevoli. Il macrocosmo influenza il microcosmo, ci si adegua, ci si abitua a ridondanti locuzioni in cui si sottolinea che il valore di ciò che si dice è proporzionale all’importanza sociale ed economica di chi pronuncia il discorsetto. Un cedimento di valori, uno sgretolamento di senso, un’induzione a non pensare più se non tramite la bocca di terzi autorevoli senza chiedersi mai perché lo siano.

Un’altra condizione attestante il degrado in cui viviamo è proprio l’assenza di domande, il menefreghismo intellettuale per cui si accetta il fatto compiuto con una sorta di fatalismo ignorante, senza mai porsi dubbi, senza mai avere perplessità di sorta, perché se è così vuol dire che così deve andare, è scritto, non si sa bene su quale sacro libro sia segnato, ma è scritto. Siccome va come va, non resta che assumere una forma dentro uno stampino preparato da altri. La trappola per topi è pronta. Il meccanismo è semplice, si mette il formaggio bene in vista, si alletta, si promette, si blandisce, per poi intrappolare il lettore dentro l’ipnosi di una gabbia in cui il formaggio non è poi così buono, ma il lettore non ha la possibilità di assaggiare altro, così quell’unico pasto innocuo gli sembra notevole, perché è il solo che il sistema mette a disposizione, non si propongono alternative, sono aborrite in nome di un appiattimento causato dalla sempre più feroce identificazione dell’editoria e dell’arte con la politica in cui contano gli slogan mandati a memoria non la dialettica o i contenuti che sono morti da tempo, sgraditi ai più perché sgraditi a coloro che decidono cosa e quando deve essere immesso nel mercato dei grandi numeri, condizionandolo con le monotematiche antidialettiche, con le piste cieche a senso unico, coi libri che girano interminatamente su se stessi ma non denunciano e non dicono nulla, con le cosiddette prose poetiche in cui si usano cinquanta parole diverse per dire che ci si mette a colazione attorno ad un tavolo o che si fa una bella passeggiata mattutina con gli amici. Parlare tanto e non dire nulla, il nuovo imperativo categorico di un’editoria e di un’arte che ipnotizza le coscienze. Il lettore si illude soltanto di leggere ciò che vuole, in realtà legge ciò che vede ed è indotto a pensare che quello sia il meglio, perché replicato all’infinito in ogni angolo; è indotto a pensare che non ci sia altro, quindi non sceglie, non ha mediamente tempo per cercare altrove, si ferma a ciò che vede e lo compra. Qualche lettore poi si è accorto e da parecchi annetti che il formaggio non è tanto saporito, ha smesso di entrare nella gabbia, così falliscono importanti collane di poesia, gli intellettuali si lamentano che non si legge più, che i lettori non comprano più libri, che aumenta l’ignoranza della gente. In realtà il fatto che tanti lettori non comprino più libri di grossi editori stampati in Cina con brutta carta riciclata e buttati sul mercato come patate, potrebbe essere anche un segno di intelligenza, non di ignoranza perché anche lettori affezionati si sono stufati di essere presi in giro. L’ignoranza è quella di chi decide per il lettore, di chi ha deciso di eliminare la qualità e il ragionamento, proponendo testi corposi in cui le parole girano a caso tra di loro, si confondono, si complicano e si torcono su se stesse come marionette, per non dire nulla, privilegiando il nome e la politica al contenuto reale del libro e alla letteratura che sta pian piano morendo e non grazie ai lettori ma agli scrittori e soprattutto a chi li raccomanda.

1Girolamo Ruscelli, Dell’arte di comporre in versi nella lingua italiana, in Venetia, appresso Giovan Battista Sessa & Fratelli, MDLXXXII, pp. 4-5.

 

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-punti-fermi/

 

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