Cappello poeta, qualche dubbio

Cappello poeta, qualche dubbio

Cappello poeta, qualche dubbio

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Cappello poeta, qualche dubbio

La strada verde, credit Mary Blindflowers©

 

Per caso ci è capitato tra le mani qualche libro di poesia di Pierluigi Cappello, originario di Chiusaforte, morto nel 2017, e considerato oggi un grande poeta. Ha vinto numerosi premi, pubblicato con Rizzoli, con Crocetti e altri editori importanti. Il 6 novembre 2012, al palazzo del Quirinale, ha ricevuto dalle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il premio Vittorio De Sica 2012 per la poesia.

Lo abbiamo riletto:

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Ieri sono passato a trovarti, papà

la luce in questi giorni non è tagliata dall’ombra

negli alberi senza vento c’è l’odore secco dell’aria

per come posso, ti ho portato il racconto dei temporali,

l’odore di inverno sulle tempie

a Chiusaforte è nevicato, nevica sempre

e le fontane sono ghiacciate

penso, per qualche momento, che tu sia ancora lassù

ad accatastare legna con cura

e non in luoghi come questi

la casa di riposo con la pista per le bocce

dove state raccolti come le foglie nel parco

uniti nell’attesa, lontani dalle città assediate.

Dicevate domani, dicevate questo è il figlio

e con il silenzio del fischio nella bufera

i vostri nomi sono andati via

voi che siete stati popolo e ombra

remissione e forza

il tuo nome, papà, e quello di Bruno, che non era un’antilope

e tirava sassate al pettirosso sul ramo più alto

o quello di Giordano, o quello di Cesare, o quello di Alfredo, l’artigliere

o quello di quelli che, come te, sono stati bambini

che hanno detto domani.

E adesso non è troppo dire

quanto poche sono le foglie cadute

sui giorni di novembre

per dire cos’è l’inverno negli occhi mentre viene

tutto il poco possibile è qui,

nei vostri corpi piegati come l’ulivo

sulle vostre facce di monete graffiate

in questo spazio, in questo tempo confusi

come il cielo e la terra quando nevica,

e se c’è un’uscita, papà, anche se non posso dire domani,

la sua luce sulla soglia

è questo stare dei tuoi occhi dentro i miei

questo pensarvi vivi, liberi e scalzi

le tasche piene di sassi, la memoria di voi

che trema in noi

come una stella incoronata di buio.

“I vostri nomi” da Mandate a dire all’Imperatore.

Ci siamo chiesti, immediatamente dopo la lettura, quale sia oggi il vero confine tra prosa e poesia e se veramente si possa far finta che non esista differenza alcuna tra elaborare una frase mandando a capo e chiamandola poesia e la stessa frase senza l’a capo, chiamandola prosa. In questa chiamiamola così, “lirica”, si abolisce il concetto stesso di opera poetica, fin dal primo verso: “Ieri sono passato a trovarti, papà.” È una frase in prosa. Poi continua: “la luce in questi giorni non è tagliata dall’ombra/ negli alberi senza vento c’è l’odore secco dell’aria.” Non c’è un verso che, a rigor di logica stilistica, si possa definire poesia, eppure Cappello viene giudicato “poeta” con la P maiuscola, ma, nonostante gli sforzi che abbiamo cercato di fare per capirne le ragioni, non ci siamo riusciti.

Passiamo al contenuto. Di che cosa parla questa prosa che va a capo?

Gioca sul filo della rimembranza, associando l’inverno delle foglie cadute alla vecchiaia del padre (e di quelli che presumibilmente dovevano essere suoi coetanei, citati per nome), e al motivo abbastanza banale delle foglie cadute. Stilisticamente una poesia aritmica, prolissa, stucchevolmente intimistica, dove non ci sono immagini originali, ma ripetizione di motivi classici con l’associazione piuttosto scontata inverno-vecchiaia-tempo che passa, rimembranza e impotenza della voce narrante. La ricerca linguistica manca del tutto. In pratica un polpettone senza infamia e senza lode che gioca sulla corda dell’innocua sentimentalità: gli occhi negli occhi, la casa di cura come luogo di morte, in contrapposizione a quando da bambini si stava liberi e scalzi con le tasche piene di sassi.

Leggiamone un’altra:

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Piove, e se piovesse per sempre
sarebbe questa tua carezza lunga
che si ferma sul petto, le tempie;
eccoci, luccicante sorella,
nel cerchio del tempo buono, nell’ora
indovinata
stiamo noi, due sguardi versati in un corpo,
uno stare senza dimora
che ci fa intangibili, sottili come un sentiero
di matita
da me a te né dopo né dove, amore,
nello scorrere
quando mi dici guardami bene, guarda:
l’albero è capovolto, la radice è nell’aria.

 

Che consequenzialità ha il periodo ipotetico d’ingresso? Che cosa comunica al lettore l’apodosi (“sarebbe questa tua carezza lunga che si ferma sul petto, le tempie”) succedanea alla protasi (“se piovesse per sempre”)? È di un’oscurità concettuale indicibile: ci pare di capire che, se la situazione atmosferica pluviale avesse i caratteri della diuturnità, sarebbe equiparabile all’effetto che ha sulla pelle del poeta la carezza protratta nel tempo della sua luccicante sorella (apostrofe altrettanto buia, poiché non si comprende se sorella sta per metafora della donna amata o indichi una reale parentela tra protagonista maschio e protagonista femmina; quell’asindeto dopo l’indicazione locativa (sul petto) non chiarisce se il contatto della mano della donna sul corpo del poeta indugi senza soluzione di continuità prima sul petto e poi sulle sue tempie: per sciogliere i dubbi ci si attenderebbe una congiunzione coordinante per sancire la giunzione terminale dell’azione blandente della “luccicante sorella” sul torace e sulla lateralità cranica del poeta.

Altrettanto oscuri sono i riferimenti al “cerchio del tempo buono” e all’“ora indovinata”: che intende dire il poeta? Che l’incontro tra i due protagonisti si è realizzato quando è tornato il sereno o le due indicazioni cronologiche sono pure metafore di superamento di temporali interiori dei due?

Ed ulteriormente nebulose sono le linee che parlano di “due sguardi versati in un corpo” ovvero “uno stare senza dimora che ci fa intangibili”: in quale delle due entità corporali sarebbero indirizzati gli sguardi dei protagonisti? Perché il non avere una casa, un sito renderebbe impalpabili i protagonisti? Che concetto è quel “nello scorrere”? E la clausola ”l’albero è capovolto, la radice è nell’aria” vuol rappresentare una vacua allegoria di crolli a seguito di intemperie esistenziali oppure una mera reale fotografia dell’effetto devastante sulla vegetazione del protrarsi delle precipitazioni atmosferiche sopradescritte?

Si ha l’impressione che il Cappello assembli metafore senza una chiarezza enunciativa ed emotiva ricercando una sorta di effetto choc estremamente abortivo, incollando una dopo l’altra linee che non hanno minimamente parvenza di versi scevre come sono di ritmi ed assonanze nonché prive di slancio emotivo.

Niente di nuovo, di graffiante, tutto si svolge in modo piuttosto scontato, lento e noioso. Nessun guizzo di genio per presunte verità resa senza verve, in maniera quasi atona, sulla pagina bianca. La poesia di Cappello dimostra che non occorre fare poesia per essere chiamati poeti, basta soltanto pubblicare con editori importanti.

Insomma si tratta di una questione di pura importanza che con la poesia ha ben poco a che fare, tanto più che si concorre in modo pericoloso alla sua prosaicizzazione, fenomeno che sta diventando irreversibile ormai.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

https://www.youtube.com/watch?v=i9Luu-d1lGk

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