Sciascia, la cronaca, l’affaire Moro

Sciascia, la cronaca, l’affaire Moro

Di Pierfranco Bruni©

 

Radio notizie, credit Mary Blindflowers©

 

L’affaire Moro” di Sciascia è un libro che condensa pietà e dolore. La morte di Moro è ricostruita attraverso un parametro che ha nel suo fondo una dimensione umana robusta. Sciascia parla di Moro uomo e riporta in luce le lettere indirizzate a uomini politici e alla moglie.

Le prime quattro pagine sono pagine fornite di una corazza sentimentale e stilistica che si addice a scrittori che hanno raggiunto uno spessore di conoscenza non indifferente. La partita, Sciascia, la gioca contro gli “uomini della fermezza”. Contro i comunisti e contro i democristiani. E in questo saggio-racconto tutto viene decifrato. Con fermezza Sciascia sostiene: “Il punto di consistenza del dramma, la ragione per cui a Moro si deve in riconoscimento (in ‘riconoscenza’) la morte sta appunto in questo: che è stato l’artefice del ritorno, dopo trent’anni, del Partito Comunista nella maggioranza di governo. E le Brigate rosse non solo gliene fanno esplicita imputazione nei loro comunicati, ma ne danno con funebre ardimento la solenne e simbolica rappresentazione, facendo ritrovare il suo corpo tra via delle Botteghe Oscure dove ha sede la Democrazia Cristiana (la forza dei nomi: le botteghe oscure, il Gesù dei gesuiti; e non so se la via Caetani, dove il corpo di Moro è stato portato, ha nome dalla famiglia cui appartenne Bonifacio VIII, o dell’arabista: e va bene nell’uno o nell’altro caso)”.

Ci si pone l’interrogativo: perché Moro non è stato salvato? Sciascia pone in frontespizio un concetto di E. Canetti che dice: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto ‘al momento giusto’.

Questo libro sollevò pesantissime polemiche. Sciascia considerava le lettere di Moro autentiche sin dall’inizio. Allora tutti le ritenevano false. Sciascia fu attaccato da tutti i versanti. Si crearono degli schieramenti e Sciascia fu tra quelli che cercarono di strappare Moro ai brigatisti.

L’affaire Moro” ancora oggi ripropone un capitolo drammatico della nostra storia, ma è affrontato con lucidità e umanità. Un capitolo di storia ma anche un capitolo in cui l’uomo si dibatte tra il mistero e la verità alla ricerca di una speranza antica.

Nel 1988 pubblica, come si è detto, “Il cavaliere e la morte”. Un libro in cui affiora una malinconia profonda. È sempre una malinconia legata a una angoscia che non stanca. La morte come cara compagna che segue ogni processo esistenziale e riposa nelle pieghe dei giorni per esplodere nel giorno deciso. La metafora non è più la morte. Ormai ogni metafora scompare e resta la certezza di essere presenti a se stessi. Anche la morte è la presenza che cattura. Un libro che sembra un testamento. E si legge appunto come un testamento. È la testimonianza che si dichiara e si impossessa di tutto ciò che è stato. Il cavaliere e la morte conducono la loro battaglia. Tra la vittoria e la sconfitta l’uomo si ritrova con il suo tempo e la sua storia accartocciati in una memoria che continua a raccontare.

Tra gli ultimi suoi libri è da ricordare il racconto dal titolo “Una storia semplice”. Un diplomatico in pensione viene trovato morto nella sua villa. Si pensa subito al suicidio. Ma c’è un colonnello dei carabinieri che appoggia l’ipotesi dell’omicidio. Si snocciolano diverse vicende. Altri omicidi sullo scenario. Conflitti tra polizia e carabinieri. Ancora una volta è il racconto breve che cattura immediatamente. Fa da sfondo con tocchi che arricchiscono la curiosità la figura di Pirandello. Dubbi, intrecci, moventi occupano il resto. Il racconto si muove tra i personaggi che rappresentano, come in tutti i lavori precedenti, un destino che segna la trama del racconto stesso. L’Italia degli ultimi anni affiora e Sciascia la incapsula con energia raffigurandola con particolare incisività. Si tratta di un racconto breve, ma ben condensato e ben sviluppato.

Parlando di questo racconto Sciascia disse: “Di quest’ultimo racconto ci sarebbe da fare un racconto. Me lo sono raccontato per mesi: è stato un modo di sopravvivere allo strazio della malattia e delle cure, quasi in doloroso dormiveglia. Posso dire di averlo mentalmente scritto pagina per pagina: e sarebbero state circa trecento. Ma appena ho trovato quel poco di energia che mi ha permesso materialmente di scriverlo, sono venute fuori una cinquantina di pagine: e mi pare di non aver lasciato fuori nulla di tutto quel che avevo mentalmente scritto nelle trecento. Il romanzo è diventano apologo: ma è meglio così. Per me certamente, per i lettori lo spero”. (Benedetta Craveri, “La Repubblica” 28 ott. ’89).

In “Una storia semplice” ci sono tutti i temi del viaggio narrativo e umano che hanno contraddistinto e caratterizzato Sciascia. C’è una scrittura di una chiarezza estrema. Si legge senza sottolinearlo e senza rileggerlo. E si assorbe subito. Come “Il cavaliere e la morte” c’è un velo sottile di malinconia. In questa malinconia c’è anche la sua sicilianità. La sua sicilianità resta uno “stato d’animo”. Ma resta anche la coscienza di una appartenenza attraverso la quale il bene e il male, la storia e il tempo freneticamente si scontrano e si incontrano, dialogano e stanno in conflitto. Ma ci sono. Così come c’è la terra, la Sicilia, e il sentimento dell’appartenenza.

È la terra dei Gattopardi, dei Brancati, dei Quasimodo, dei Pirandello. È la terra in cui il mutamento è restare fedeli. A conclusione degli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel si legge: “I fatti della vita sempre diventano più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali veramente sono, quando li si scrive – cioè quando da ‘atti relativi’ diventano, per così dire, ‘atti assoluti’. Come diceva quel poliziotto di Grahm Green: ‘Possiamo impiccare più gente di quel che i giornali possono pubblicare’. Anche noi, tutto sommato”.

E si ritorna sempre, come un luogo da cui si parte perché è qui che bisogna tornare, alla metafora. Nella metafora: perché è nella metafora che si ritrova il mistero-enigma-sospetto. È nel mistero si ritrova il viaggio d’identità, il ritorno. Ma purtroppo c’è anche la cronaca. Sciascia si è troppo calato nella cronaca.

C’è una frase di Pascal che Sciascia pone come frontespizio a “Dalle parti degli infedeli” del 1979 che dice: “Il servo non sa quel che fa il suo padrone, poiché questi gli dice soltanto dell’azione, non del fine da raggiungere; e perciò vi si assoggetta servilmente e spesso peccando contro il fine. Ma Gesù Cristo ci ha insegnato il fine. E voi lo distruggete”.

Nei suoi libri ci sono precisi riferimenti. Pagine di commenti, indicazioni e suggerimenti. Il primo Sciascia è diverso dall’ultimo. Nei primi libri la forzatura ideologica, in alcune pagine, sembra addirittura una montatura. Ma scorrendo il resto ci si accorge come quelle pagine possono restare isolate. Ma mano che si va avanti si comprende come la forzatura ideologica si fa più dilatata. Subentra una maggiore consapevolezza ma subentra anche una maggiore esperienza a contatto con quella ideologia alle quali Sciascia sentiva di appartenere.

Candido” è un libro che non nasconde, ma rivela con coraggio ridicolizzando quel partito al quale Candido era legato. Ma la di dà di questo c’è lo scrittore che si abbandona e traccia pagine testimonianza. Il paese, i personaggi, la donna, l’amore. ecco potremmo rileggerlo attraverso queste indicazioni. E in ultimo la morte. “Il cavaliere e la morte” è la malinconia che cerca la metafora, ma è anche la malinconia che chiede di durare.

La vita e la morte. O forse altro? I personaggi non sono pezzetti del mosaico. Ormai sono il mosaico. Con le sue tinte e le sue voci. Ecco. I personaggi di Sciascia sono le voci. Le voci che lo hanno accompagnato lungo il suo cammino. E restano come voci a parlarci. E ogni parola chiede una pausa e una meditazione. Ma in Sciascia c’è l’attesa. Basti pensare a gran parte dei personaggi. Sono personaggi dell’attesa. Anche il mafioso. Si pensi a don Mariano. Si pensi anche al capitano Bellodi. Si pensi al commissario di polizia in “Una storia semplice”. E questa attesa è forse la riconversione della malinconia. Ma la vita e la morte, senza angoscia e senza disperazione, disegnano l’inquietudine.

Sciascia con i suoi racconti e con le sue pagine di prosa (non solo su Pirandello) ha reagito, soprattutto negli ultimi anni, a un conformismo dilagante che ha ormai invaso e occupato la storia di questo Paese.

Certo. Va riletto. Ma va anche interpretato diversamente.

Si è parlato di mistero e di attesa. Ma occorre chiarire questo discorso. Il mistero e l’attesa non sono un fatto religioso in Sciascia. Il mistero e l’attesa sono semplicemente due modi per chiarire o per parlare degli enigma che hanno travagliato la realtà di questo Paese, nel quale Sciascia ha calato le sue storie e i suoi personaggi. Niente di particolare e niente di trasversale. In Sciascia tutto sommato non si sono agitati grandi temi esistenziali o religiosi. Tutto ciò che è approdato sulle pagine e nei libri di Sciascia è venuto fuori dalla cronaca. La rappresentazione del quotidiano: questo interessava Sciascia. Portare sulla pagina il fatto e raccontare il fatto hanno costituito per Sciascia un modello di comunicazione.

Il discorso che in questi anni Sciascia ha portato avanti nei confronti di un modello letterario tutto costruito sulla cronaca non ha d’altronde, così sembra, giovato alla sua resa letteraria. Un libro può essere un buon libro indubbiamente, ma i risultati, se si parla di racconto o di romanzo, devono avere una loro verifica. E la verifica la si ha sul piano della resa. Il problema, in tal senso, non è Sciascia ma è un modello di letteratura. Temi, contorni, riferimenti, metafore ci sono in Sciascia. C’è pure il sogno. Ma a questo attraversamento si è fatto prevalere la cronaca come rappresentazione di una vicenda, come descrizione, come indicazione anche di lettura. La cronaca va letta, ma ciò che resta, alla fine, non è la cronaca, ma la letteratura.

Non vuole essere, questa, una conclusione riduttiva dopo aver parlato e accettato gli scritti di Sciascia e non vuole essere una contraddizione con ciò che si è detto prima. Vuole essere soltanto un modello di approccio che dovrà spingerci ad una reale verifica. Non possono essere accolte certe proposte che Sciascia fa sul piano della letteratura perché non si crede ad una letteratura-cronaca. Ma Sciascia indubbiamente resta un testimone, un testimone interessante e intelligente, di questi nostri anni. Ha scritto dei libri sui quali si è discusso, si è dibattuto, si è meditato. Ma la letteratura resta un mistero non un ragionamento e la parola è sempre grazia e non un calcolo. Forse è proprio quei la distinzione tra la cronaca e la fantasia. Forse è proprio qui la distinzione tra Brancati e Sciascia. Anche l’ironia è qualcosa che non si costruisce perché è nel mistero che accompagna la scrittura. Mentre la denuncia non è nell’ironia ma è nella quotidianità che chiede di esprimersi. E Sciascia alla cronaca e alla denuncia si è affidato. Forse per testimoniarsi o forse perché la fantasia è sempre oltre la cronaca (o oltre la realtà).

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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