L’inerte cannibale di Grasso

L’inerte cannibale di Grasso

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

L’ora del tè, credit Mary Blindflowers©

 

Dato che il tempo cambia e sta quasi per piovere decidiamo di rientrare, berci un tè mezzo caldo mezzo freddo e dedicarci alla lettura di qualche poesia. Eccone una:

Io dirvi non so come
che fui malato e matto,
Annibale di nome,
cannibale di fatto,
ma che ci posso fare
se, contro l’altra gente,
sceglievo di mangiare

un uomo cotto al dente?

Di certo la mia sorte
non fu gentile e retta,
sin dalle brache corte
mi volle pia forchetta,
così saziai distrutto
i teneri languori,
accomiatai col rutto

i mesti genitori.

Insomma un Ugolino
io fui, ma rovesciato,
stavolta fu il bambino
a compiere il reato,
ma solo col supplizio
potettero salvare
il figlio loro e il vizio

che aveva di sbranare.

Quando divenni adulto
non mi passò la fame
e senza alcun indulto
il giorno dell’esame
la peggio della scuola,
la mia professoressa,
la misi in casseruola,

me la spolpai ben lessa.

Intanto che lo Stato
cercava il criminale,
famelico e dannato
viaggiavo col mio male,
andavo per il mondo,
nei meglio ristoranti,
sceglievo per secondo

i suoi sparsi abitanti.

E se un boccone grosso
mi rimaneva stretto
bevevo il sangue rosso
di chi mi dava il petto,
e solamente poscia
io mi cibavo lesto
del piede, della coscia,

di tutto quanto il resto.

Ma un giorno vidi lei,
le labbra color miele
e gli occhi verso i miei,
lo specchio d’un crudele,
d’un mostro con il ruolo
d’ingordo ed affamato,
stavolta, invece, solo

perduto innamorato.

La pancia mi si chiuse,
si spense il mio appetito,
la musa delle muse
mi rese più impazzito,
così m’avvicinai,
la volli accarezzare,
per ossessione, ormai,
lei tutta da annusare.

E all’eccellente odore
di donna seducente
l’istinto mio, l’orrore,
si fece impertinente,
un desiderio forte
d’umano macellato
che solo la sua morte
m’avrebbe regalato.

Perciò, debole orco
col torto nel cervello,
intollerante al porco
così come al vitello,
insomma all’animale,
sia cotto che al carpaccio,
per non recarle male
mi morsi tosto un braccio.

E mentre la osservavo
di panico vestita,
dolente assaporavo
la carne delle dita,
morivo fra i lamenti,
sfamato e innamorato,
col cibo sotto i denti,
del tutto dissanguato.

poesia tratta da L’ultima nuvola di Alfio Grasso, Algra Editore (2013).

Ci si interroga angosciati di fronte a questa devastante rigmarole del Dottor Alfio Grasso, che davvero speriamo ci abbia riservato “L’ultima nuvola” senza reiterarne l’emissione grigia e plumbea, sul motivo del passaggio dai suoi quasi impeccabili settenari di ogni strofa del suo indigesto e indigeribile componimento filastroccato a quell’ultimo scazontissimo quinario che spezza ignominiosamente il ritmo e l’omogeneità iterativa del martellamento prosodico. Scimmiottamenti di archilochismi d’accatto? Noi ci siamo immodestamente permessi di omogeneizzare le clausole strofiche; ci perdoni lo stupro del suo afflato originalissimo e altamente induttore di emozioni! Non vorremmo aver deturpato il suo parto che parte da un ribaltamento della vicenda ugolinica e non porta minimamente ad analoghi risultati di gradevolezza. Ma per restare sull’abortività di certe strutture, gli suggeriamo intanto:

  • un punto interrogativo al termine della prima strofa;

  • l’inserimento di un articolo determinativo maschile plurale prima del pronome possessivo “miei” nel terzo verso della settima;

  • la soppressione di quell’aggettivo possessivo nel secondo verso dell’ottava che costringe a parecchie sineresi una linea che andrebbe bene nella scorrevolezza così formulata: ”si spense l’appetito”.

Le rime sono di banale e infantile qualità: matto/fatto, gente/dente, mangiare/fare, nome/come, sorte/corte, retta/forchetta, etc. Il linguaggio filastroccheggiante non apporta nessuna novità linguistico-contenutistica al patrimonio delle filastrocchette italiane edite e non edite che si vedono in giro qua e là sui social e sui libri stampati. Incapace per via della limitatezza dello stile, di raggiungere tasti ironici che sarebbe stato meglio toccare, il componimento risulta alla fine macabramente stucchevole, una polpettina di sangue e amore a buon mercato sulla piazza delle rimette da quinta elementare.

E in tema di afflato comunicativo e partecipativo, ci si domanda se il Dottor Grasso con quel viraggio in ultima strofa al suicidio cannibalico per amore creda di donare struggimento al lettore: con noi non ci è riuscito affatto; questa rigmarole non fa né ridere, poiché formalmente zoppa, né piangere, perché contenutisticamente inerte! In sommo grado! Se siam stati irriverenti ci perdoni e non venga a risuscitar con noi i suoi istinti cannibalici!

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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