Perché tutti vogliono fare i poeti social?

Rare Vintage Print, The Road to the stars, 1919

Perché tutti vogliono fare i poeti social?

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

 

Rare Vintage Print, The Road to the stars, 1919

Rare Vintage Print, The Road to the stars, 1919, credit Antiche Curiosità©

Gli italiani sono un popolo di navigatori, inventori e soprattutto poeti. Oggi per navigare ci sono le prosaiche e comuni navi di linea, di nuove invenzioni se ne vedono poche, e in quanto alla poesia possiamo dire che è praticamente defunta e sepolta sotto larghi strati di saccenteria praticonesca. Tutti scrivono poesie, come se la poesia fosse una formula magica, un passez par tout contro le frustrazioni quotidiane, la depressione galoppante, le nevrosi che traspaiono dai profili social. E guarda caso, proprio nei social i sedicenti poeti danno il meglio di se stessi, nei gruppi precisamente. Tutti i poeti nazionali come i topi del pifferaio magico di Hamelin, si radunano nel guazzabuglio micidiale dei gruppi poetici dove di poesia, a dire il vero, se ne trova ben poca, ma di spocchia e castronerie parecchie.

Per esempio ecco i primi versi di un componimento definito a gran voce poesia. Postato da tal Carmelo Salvaggio il 26 febbraio 2019. Abbiamo pietà dei nostri lettori e proponiamo soltanto la prima parte:

LICET…

Carnevale è qui
c’è nell’aria l’allegria!

Semel in anno licet…

Ci sono giorni
che la confusione, rende
possibili di sfrenata passione
così come vini
che offuscano la mente
dissipando ogni inibizione,
esasperando i freni della morale…

È PERMESSO…così recita il titolo; leggendo il testo verrebbe da chiedersi: “Forse il poeta chiede davvero, a chi si accinge a leggerlo, il permesso di scrivere”…perché di parecchia tolleranza e buona disposizione ci sarebbe bisogno da parte di un lettore…ma andiamo avanti nello scandaglio: il distico d’ingresso non è separato da alcuna virgola o punto, nonostante la chiara cesura concettuale tra l’avverbio di luogo in clausola di primo verso e la struttura locativo-verbale in avvio del secondo. Semel in anno licet… recita letteralmente il terzo, citazione d’un aforisma latino monco dell’infinito soggettivo che lo sostanzia …non si capisce dunque che cosa sia permesso fare una volta all’anno a Carnevale (forse scherzi di ogni genere, come si concede il lusso di fare con dubbio gusto Salvaggio, approcciandosi all’ars poetica, in realtà uno scherzo di dubbio gusto il suo!); ma andiamo oltre: “ci sono giorni che la confusione, rende possibili di sfrenata passione”: pessimo anacoluto nella proposizione relativa, ma questo sarebbe materiale stilistico e diremmo transeat, dato il livello del soggetto scrivente; però, vivaddio, quell’asindeto tra il soggetto e il predicato verbale urla urgente reclusione del Salvaggio nella favela dei poeti! Non si tollera!!! Ovviamente questo raglio d’asino nell’ambulacro lirico decolora le ulteriori assenze di asindeti alla fine del terzultimo verso, poiché anche lì l’errore è evidente, atteso che ogni dipendente narrativa andrebbe scevrata dalla sua reggente (come peraltro mostra di sapere il presunto poeta, separando in clausola la prima narrativa dalla seconda ad essa coordinata). Chiudiamola qui perché sin troppo tempo si è dedicato alla critica di un testo così insulso anche dal punto di vista contenutistico. Non senza aver domandato all’autore: ma egli ha idea, con riferimento all’ultimo verso, (“esasperando i freni della morale”) di che cosa significhi il verbo esasperare? A noi pare che l’etilismo liberi i gangli etici lasciando l’uomo in scatenato satiro-menadismo dionisiaco; se un freno viene esasperato, vuol dire che quell’essere, alla faccia dell’alcol ingurgitato, sta rigidissimo nei suoi vincoli deontologici…boh? Insomma la virgola segue la regola dell’umidità dell’aria, le sgrammaticature anche.

Pregevolissimo un commento di una sfegatata ammiratrice del buon Carmelo, che si firma Maria la Mattina ma che forse si è svegliata di notte, testuale la signora precisa: “una poesia può essere bella anche con una virgola fuori posto e poi chi scrive versi così belli e che leggo sempre con piacere come Carmelo Salvaggio, difficilmente può fare errori grammaticali. Anche le sgrammaticature sono volute, il vero poeta può farlo, e lui lo è, certamente”.                                                                                                                 

E ancora l’autore della suddetta pregevole lirica ritiene che chi vede errori o contenuti pari a zero dentro il suo sublime componimento sia persona afflitta da evidenti problemi di lettura e interpretazione, perché l’esimio poeta avrebbe utilizzato il licet che gli consentirebbe non solo di mettere la virgola dove capita capita per fare un bel respiro lungo, ma anche di scrivere senza scrivere nulla.

I gruppi poetici propongono migliaia e migliaia di pietosi esempi come questo, e di gente che elogia il nulla fritto.

Perché gli italiani si ostinano a volersi definire poeti? Perché si sfogano nei social scrivendo poesie e perché si risentono mortalmente se qualcuno dice loro provocatoriamente che non sono poeti? Il poeta, a ben pensare, non ha nulla di speciale, vende poche copie sì e no, è un perdente in una società in cui vince chi è più competitivo sul mercato, chi ha disvalori legati al denaro. Allora perché etichettarsi poeti e ostinarsi a scrivere spesso senza aver mai letto nulla? Per ottenere consensi e plausi falsi come la dentiera della nonna del poeta o del poeta stesso? Nessuno o quasi avrà il coraggio in un social di dire che un componimento è pietoso tecnicamente e contenutisticamente. Anzi, gli amici del poeta diranno che è sublime, meraviglioso. I commenti diventano asettici, stereotipati in complimenti plastificati, inutili come il testo proposto. Non si arriva mai alla critica perché la regola perversa del gruppo non prevede defezioni o atteggiamenti che si discostino dall’uso e abuso del sostegno psicologico al poeta. Nessuno dirà che la virgola forse non sta dove dovrebbe stare, che il verso è incompiuto, monco, brutto, insignificante, noioso, che la poesia non è nemmeno una poesia, sì perché poi interverrebbero i cavalieri del qualunquismo a buon mercato senza macchia e senza paura a dire che tutto sarebbe poesia, qualsiasi cosa, dato che nessuno può dire cosa sia esattamente questa benedetta poesia di cui tutti parlano, quindi ognuno può scrivere ciò che vuole in libertà etichettandolo come poesia o letteratura, se poi a questi bollini si aggiungono anche spruzzi di buoni sentimenti, il consenso fittizio è servito su un piatto di platino. E poi ai disturbatori viene riservato il banno, in modo che non possano criticare.

Un mondo inutile, sfatto, ipocrita, di gente indottrinata secondo le regole di uno stucchevole quanto tedioso savoir faire in cui è previsto rigoroso silenzio in caso di dislike. Un mono-pensiero riflesso di una società profondamente degradata, i cui membri sono talmente insicuri e disperati da cercare e ottenere approvazione in gruppi di mutuo soccorso poetico in cui volenterose intronate crocerossine, distribuiscono complimenti a caso, perché così facendo sanno che otterranno in cambio altrettanti complimenti da quelli a cui li hanno fatti, un circolo vizioso di gente penosa incapace di gestire la minima critica, di mettersi in gioco, che si prende molto sul serio e non ha capito che la creatività è solo un frammento di infanzia mai morto dentro di noi e che un poeta non può prendersi mai sul serio né prendere sul serio la sua stessa poesia, altrimenti non sarebbe nemmeno un poeta, ma un povero nevrotico che segue il percorso di uno scarafaggio imprigionato dentro una rassicurante sigillata scatoletta di vetro da cui è impossibile uscire.

Questa prigione di vetro è alimentata anche dalla stampa nazionale. Se ci sono molte persone che pubblicano le loro ciofeche nei social è anche perché i media comunicano le sorti di mirabolanti poeti nati su Instagram o nei social network e che venderebbero milioni di copie. Ovviamente nessuno può controllare le reali vendite la cui notizia è soltanto un’operazione di marketing per giustificare il fatto che soggetti senza alcun talento riescono a pubblicare con grossi editori, facendoci credere che costoro pubblicano perché hanno milioni di followers su un profilo social e non perché sono raccomandati da qualcuno. Ma tant’è… le favole funzionano, infatti Francesco Sole, un personaggio costruito a tavolino da Facchinetti e dalla sua agenzia Newco Management, pubblica con Mondadori, dandoci a bere che ha fatto successo dal nulla nei social. E molti creduloni continuano a postare le loro poesie sperando un giorno di pubblicare con un grosso editore, perché la mamma dei cretini è sempre eternamente gravida. 

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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