Leggere è non leggere

Leggere soltanto ciò che si legge è non leggere

Leggere è non leggere

 

Leggere soltanto ciò che si legge è non leggere

Geminidi sospese, impazzite, mixed media on paper by Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Leggere è non leggere

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Leggere ciò che si legge soltanto sulla pagina bianca o leggere e essere spinti contemporaneamente oltre, verso isole di riflessione come in un gioco di scatole cinesi dove il movimento è generato proprio da ciò che si intuisce ma non si vede?

Le due opzioni segnano inesorabilmente il confine tra scrivere un libro qualsiasi e fare letteratura.

Il libro non è un oggetto sacro da conservare nei secoli a venire. Un libro brutto lo si fionda nel cestino della carta riciclata o lo si regala al peggior nemico. Non c’è niente, nessuna ragione morale, nessuna legge naturale o razionale imperativo categorico più o meno kantiano che possa indurre un essere umano senziente ad avere una venerazione per pagine e pagine scritte in cui la parola non va oltre se stessa. Leggere un libro che dice soltanto quello che dice equivale infatti a non leggere, tanto vale dedicarsi ad altro, magari appendere sul muro la foto di un soggetto che non ci è gradito e lanciargli freccette. Che senso ha infatti leggere un testo che non nasconde un senso oltre consonanti unite a vocali, un senso oltre la punteggiatura e gli spazi e i frammenti di vita che vi si colgono? Un libro la cui parola non si supera è a tutti gli effetti un non-libro. La letteratura non vive sulle righe perfettamente allineate di pagine e pagine e nemmeno nello spazio bianco tra un rigo e l’altro, tra una parola e l’altra, tra un punto e una virgola, ma nello spazio immaginario infinito che è stata in grado di sollecitare e creare. Fare letteratura significa valorizzare il mistero del non esplicitamente espresso, che dà corpo, vigore e senso ad un’operazione letteraria. Senza il non detto si pattina su una superficie di ghiaccio destinata a sciogliersi col tempo, una superficie che tuttavia piace molto al business. La pericolosa tendenza che ha preso sempre più piede è quella dell’inutile innocuità in tutti i campi artistici. Sei un artista ufficiale e puoi parlare con l’etichetta arte stampata a caratteri cubitali sulla fronte soltanto se non dici nulla oppure ti limiti a dire cose che tutti sanno e di fronte a cui i populisti muovono la testa per dire sì. Dire nulla è il dolce da servire a caldo, infarcito di stereotipi in cui tutti si identificano, la regola delle regole a cui si aggiungono un po’ di buoni sentimenti, una spolverata di spiritosaggine che solleva l’umore o in alternativa un finto impegno verso i problemi risaputi del mondo a cui si offrono cerottini che nascondono e non curano alcunché. A dispetto delle tempeste ormonali di sedicenti scrittrici di molto successo nei gabinetti del pubblico decesso televisivo, tra una lezione e l’altra sul fascismo, i libri non devono essere “atti politici”. Nel momento in cui il libro diventa un atto politico non è più un libro ma spazzatura mediatica creata per un sistema che ti offre il successo in cambio della tua anima incatenata, piegata ad esigenze che esulano completamente dal talento che probabilmente scarseggia.

Gli atti politici che invadono le nostre librerie sotto forma di oggetti cartacei sono sempre più numerosi. La libreria è diventata un enorme fast-food in cui del cibo molto visibile e cucinato male bombarda le menti dell’uomo medio costretto in regime monopolistico a vedere sempre le stesse copertine, a sentire sempre il nome degli stessi autori, ripetuto all’infinito, derubricato nella tv e nei giornali, quel nome che nasce dall’appartenenza ad un gruppo di potere, quel nome costruito come si costruisce una falsa tesi che germoglia in virtù di un certo tipo di fertilizzante chimico che nuoce gravemente alla salute mentale di chi lo sente, di chi lo subisce ossessivamente, senza possibilità di scelta. La vera scelta presuppone infatti più opzioni, ma in regime di monopolio politico-economico, vince chi pensa che scrivere un libro sia fare politica e lodare le appartenenze che lo hanno reso popolare, ringraziare e votarsi al cambiamento del mondo in virtù di quelle stesse spinte e controspinte che gli hanno reso grande il fantastico e mirabolante fuffa nome che porta appeso al collo delle definizioni. Lo scrittore fuffa così viene intervistato a tutte le ore, tirato per la giacchetta di qua e di là, invitato a parlare su questioni completamente estranee alla letteratura, passa molto tempo in televisione e a rilasciare interviste sui giornali, tanto che ci si chiede come trovi il tempo di sfornare come biscottini da stampino, i suoi meravigliosi libri per adulti e per bambini che poi ci ritroviamo prepotentemente in vetrina e che notiamo anche se non lo vogliamo perché qualcuno indirizza le nostre scelte che non sono nemmeno scelte, sono imposizioni di mercato, frutto di un mondo ristretto, elitario, politicizzato e monopolistico che esclude categoricamente dalla rosa dei vincenti tutti quelli che pensano che scrivere non sia fare politica ma che sia un atto creativo e libero, destinato a far muovere idee che esulano dall’interesse di bottega.

Ma tant’è, la libertà non paga, la bottega rende ma non sorprende perché offre al lettore libri in cui si legge solo ciò che si legge e che diventa poi legge agli occhi degli sciocchi in una realtà che a fatica regge se stessa.

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