Arbeit Macht Frei. Lavoro e utopia della democrazia

Julian Assange, dittatura globale

Arbeit Macht Frei. Lavoro e utopia della democrazia

Di Mary Blindflowers©

Arbeit Macht Frei. Lavoro e utopia della democrazia

The utopia of democracy, mixed media on canvas by Mary Blindflowers©

 

Scriveva F. Nietzsche (Aurora, Adelphi, Milano, 1966, libro III, pp. 152-153): “Povero, lieto e indipendente! Queste cose insieme sono possibili; povero, lieto e schiavo, anche queste sono possibili, e, della schiavitù in fabbrica, non saprei dire nulla di meglio agli operai, posto che essi non sentano in generale come ignominia il venir in tal modo adoperati, ed è a quel che succede, come ingranaggi di una macchina e, per così dire, come accessori dell’umana inventività tecnica! È obbrobrioso credere che attraverso un più elevato salario la sostanza della loro miseria, voglio dire la loro impersonale condizione servile, possa essere eliminata! È obbrobrioso avere un prezzo per il quale non si resta più persone, bensì si diventa ingranaggi… Ma dov’è il vostro intimo valore, se non sapete più che significa respirare liberamente? Se non avete, neppure un poco voi stessi in vostro potere?”

La domanda rimane in piedi anche oggi perché il nodo lavoro-libertà è praticamente ineliminabile. Se Marx ha parlato di alienazione dell’uomo attraverso il lavoro e Max Weber si è posto domande sul lavoro come elemento condizionante la nascita della democrazia, nessun filosofo è mai riuscito a risolvere il problema del rapporto tra lavoro e libertà, sottolineato atrocemente dalla scritta nei campi di sterminio nazisti: Arbeit Macht Frei, il lavoro rende liberi. E se lo diceva Hitler forse qualche dubbio sulla libertà concessa all’uomo dal lavoro, possiamo nutrirlo anche noi.

Il problema del lavoro è il fine e la necessità. Marx sosteneva che per evitare l’alienazione e l’assenza di libertà, occorrerebbe sfrondare il lavoro dalla pura necessità, sostituibile da fini posti dall’individuo, non dall’esterno. L’uomo in teoria nel lavoro dovrebbe realizzare un fine che lo rende se stesso e in cui si identifica. Se il fine non è stabilito che dalla necessità, come può esserci libertà?

L’etica del lavoro come valore incondizionato, il cui unico fine è il guadagno quando non la mera sopravvivenza, non attua la realizzazione umana, perché il fine è stabilito dall’esterno, da un super ego che impone e limita la libertà stessa nel momento in cui promette di realizzarla.

Lavorare è un diritto, farsi sfruttare anche, a quanto pare. Questo diritto, siccome la necessità diventa ineliminabile, è un dovere sociale da compiere a qualsiasi costo, in barba alle proprie capacità e inclinazioni.

L’idea che un individuo X che ha passato anni a studiare, a laurearsi per poi specializzarsi, debba fare un lavoro che non gli piace e inferiore alle sue reali capacità, solo per sopravvivere e il becero moralismo di chi dice che occorre accettare qualunque lavoro, sono atteggiamenti tipici dei Paesi economicamente e socialmente sottosviluppati dove gente che dovrebbe fare il netturbino fa il segretario, mentre il laureato fa il netturbino quando gli va bene e lo specializzato, dopo aver conseguito un master, è costretto a fare un colloquio di lavoro con un ebete che magari gli dice pure che è troppo qualificato per quel posto. Poi arriva la tv con gli opinionisti raccomandati di successo che dicono che oggi nessuno ha più voglia di lavorare nel proprio Paese dei balocchi, che i giovani emigrano per cercare altrove quello che non trovano sotto casa perché sono viziati. Lo dicono pure i ministri italiani, che nessuno vuole fare più lavori umili. E se lo dicono i ministri che amminestrano e sappiamo come, possiamo crederci. E la televisione di Stato veicola idilliaci messaggi di pubblicità-regresso, ossia il concetto che il lavoro va rispettato a tutti i costi, che un soggetto che ha laurea e master è moralmente un buon cittadino solo se accetta di fare un lavoro sottopagato e inferiore al suo titolo di studio, perché oggi così vanno le cose, dato che il lavoro che potrebbe fare lui lo fa un altro che non è nemmeno laureato ma occupa quel posto senza titoli.

Il lavoro dunque, sacrosanto, inviolabile, necessario soprattutto per la sopravvivenza. Lavorare è essere, tu sei il lavoro che fai, non sei più tu, sei fuori di te, sei un avvocato, un ingegnere, un contadino, un operaio, un bidello, etc. Tu sei un lavoro non più una persona. Sei lavori sei, se non lavori non sei. E se lavori e fai un lavoro che ti rende schiavo e prendi magari ordini da un soggetto che ha fatto la metà degli studi che hai fatto tu e che non sa nemmeno parlare, comunque hai un lavoro, sei qualcosa nel mondo, hai un posto, una collocazione specifica, sei un barattolo con l’etichetta assieme ad altri barattoli con altre etichette regolamentari nella grande macchina della vita sociale del tuo Paese. Il lavoro prima di tutto con la sottintesa ironia della libertà a tutti i costi che ha il sapore di un campo di concentramento.

L’identificazione dell’uomo con il suo lavoro si evince anche dal linguaggio. La domanda sul chi sei è sempre associata al cosa fai. E anche al solo chi sei si risponde con il jolly del lavoro. Chi sei? Sono un insegnante, un manager, un allevatore, etc.

Sono quello che faccio. E se quello che faccio lo faccio per vivere non perché mi piace, l’identificazione è forzata, impersonale, alienante, però comunque mi dà una collocazione nel mondo. Il fine diventa necessità e non più fine, il denaro diventa la meta, sia per sopravvivere che per vivere o per stravivere, dipende da quanto si guadagna. Tutto questo lo chiamiamo libertà e democrazia. Arbeit Macht Frei. 

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

Comment (1)

  1. Claudio

    Tutto tristemente vero, ma il lavaggio del cervello subito dalla società è troppo forte. Ormai le persone accettano queste ingiustizie sociali come se fossero malattie genetiche inevitabili. Nascere poveri equivale a vivere come schiavi, anche se con la propinata falsa speranza che le capacità e l’intelligenza possano un giorno riscattare da quella condizione. Invece, al massimo, ci si può liberare dalla schiavitù con la disonestà e il lecchinaggio, oppure vendendosi. Che è un po’ una contraddizione in base a una giusta scala di valori. Ma tant’è. In ogni caso, per vendersi bisogna avere una mercanzia adeguata da proporre e tanti peli sullo stomaco. E certa gente li ha. E dopo, diviene così piena di sé da non lasciarsi mai sfuggire come ha raggiunto certi traguardi, nemmeno con la propria immagine riflessa.

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