Amos Oz. Lo scrittore di una antropologia israeliana

Amos Oz. Lo scrittore di una antropologia israeliana

Amos Oz. Lo scrittore di una antropologia israeliana

Di Pierfranco Bruni©

Amos Oz. Lo scrittore di una antropologia israeliana

Il mare, credit Mary Blindflowers©

 

Le eredità raccontate si fanno antropologia di un vissuto. La scrittura come identità. Raccontare uno scrittore per uno scrittore é raccontarsi. Così, pet cercare di dire la verità. Una verità possibile. “Mi piacerebbe sapere donde arriva l’odore di fumo: non c’è nulla che brucia, da queste parti. Resti un vecchio aquilone” da “Lo stesso mare” di Amos Oz. La solitudine è una inquieta zattera sulla quale depositiamo il cuore.

Amos Oz ha fatto della sua vita una eredità tra due mondi. Le due vie. Israele e Palestina. Nel 1992 pubblica “In terra di Israele”. Un libro che è un sottosuolo di storia e ricordi, nel quale la sua identità diventa antropologia. Il suo attraversamento letterario è dentro un processo culturale che è diventato un progetto antropologico. Ogni libro rappresenta il racconto della sua vita, del suo viaggio, nell’ambito delle definizioni socio-politiche ed esistenziali. Penso a “Scene della vita di un villaggio” del 2010.

Oppure al saggio “Una terra due stati: interviste” del 2007. Ha tracciato una dimensione di quel mondo israelita palestinese in cui il senso del conflitto politico, storico, ha sempre costituito uno strumento per raccontare una visione metafisica. Ma in lui vi sono metafore che disegnano una vera e propria dimensione dell’essere. Una di queste metafore è rappresentata dal mare.

Il mare come limite, ma anche come “non limite”. Orizzonte e frontiera. Ovvero come metafisica. La metafisica della frontiera è una antropologia del limite.

Cesellare una metafora, per uno scrittore come Oz, ha significato per definire non soltanto un luogo geografico, ma anche un luogo del proprio essere in quel concetto forte che resta sempre la determinazione della diaspora.

Sia i suoi libri di narrativa che quelli di saggistica possiedono in sé la centralità della diaspora, fuga e ricerca di una terra promessa. I temi consolidati si tratteggiano mediante queste dimensioni umane che la scrittura rende definizioni storiche.

Per Oz il linguaggio non è solo comunicazione. È anche rappresentazione di immagini che non esclude, comunque, il racconto. L’immagine e la parola tratteggiano una profonda inquietudine in uno scavo in cui il senso del tempo viene definito come senso dello spazio. La sua posizione sulla questione degli immigrati era ben chiara. Lasciando la loro terra, gli immigrati rischiano di diventare degli “spaesati”, degli “sradicati”.

Lo sradicamento comporta anche il dimenticare una memoria, sebbene rimanga dentro l’anima. Ma la memoria ha bisogno di una sua apparenza nell’appartenenza, ossia di un immaginario che si manifesta attraverso la testimonianza dell’appartenenza all’interno della propria terra.

Lo sradicato è un uomo che porta dentro di sé i segni della memoria. La vita, però, non è solo memoria. Oz, che conosceva bene il senso e i destini della letteratura, ha rappresentato questa visione.

Non ho amato la scrittura di Amos Oz.

La sua letteratura non appartiene al mio percorso letterario, anche se la tematicità problematica del viaggio e del mare costituiscono un perno centrale sulla linea degli orizzonti metafisici.

Non ho creduto opportuno recensire il suo libro su Giuda, perché credo che non sia quello il modo di approcciarsi ad un personaggio che porta la sfida storica all’interno di una cultura quale è quella giudaico-cristiana. Mi sembra piuttosto un “giallo” che una proposta incompiuta nella sua ontologia sionistica.

Il Giuda che emerge nel suo romanzo-testimonianza, rappresentato come metafora nonostante venga definito nella sua fisionomia storico oltre teologia del Testamento, non è quello che appartiene alla mia storia di scrittore e di uomo.

Dico questo perché non si può scrivere di uno scrittore in modo asettico. O lo si sente, oppure è distante. La coerenza impone sincerità. Ormai non credo più allo strumento della critica letteraria. Credo, invece, ad una empatia all’interno di una letteratura nella quale ci sono le tangibilità di un incontro.

Tra me e Amoz Oz, che ho incontrato in diverse occasioni, non c’è stata questa interiorizzazione, anche se viene considerato uno scrittore internazionale importante. Se viene a mancare quel filo che lega il modello degli archetipi funzionali a quelli del mito di appartenenza, è difficile poterlo vivere come scrittore all’interno di una formazione destino.

Si è comunque sempre testimoniato e, testimoniandosi, ha lasciato dentro la pagina i propri frammenti.

È stato uno scrittore coraggioso proprio in merito alla questione sull’immigrazione e sul fanatismo politico e ideologico. Nei suoi scritti ha affrontato il grande dilemma del letterato nel riuscire a non contrapporre l’atto creativo a quello contemplativo. Ciascuno di noi corre questo rischio, muovendosi in bilico su un filo d’acqua. Bisogna stare attenti a non far cadere questo filo d’acqua nelle gocce del linguaggio, altrimenti si giunge al punto in cui non c’è diversificazione tra la creatività e la saggistica, l’atto contemplante.

Amos Oz è stato uno scrittore di narrativa che ha cercato di impossessarsi anche degli strumenti della saggistica, cercando di non intrecciare le due diverse modalità di scrittura (e non parlo di generi narrativi). La creatività si nutre di fantasia, di mistero, di metafore e di sogno.

Anche nel suo ultimo libro “Tocca l’acqua, tocca il vento”, 2017, questa speranza-esperienza di Oz sembra essere venuta meno, così come nel testo dal titolo “Giuda” del 2014. Sulla figura di Giuda esiste un’ampia bibliografia, che diventa minima sul piano strettamente letterario. Ancora oggi il Giuda che resiste alle intemperie della storia è quello rappresentato da Giuseppe Berto nel suo romanzo “La gloria” del 1978.

La scrittura di Amos Oz é un equilibrio comparativo tra politica e letteratura . Ha cercato di nutrire la sua vena creativa con la riflessione contemplante e politica della sua appartenenza ebraica, non donando, a mio avviso, nessun contributo alto alla prosa narrativa che deve sempre possedere in sé il significato e il senso di una magia vera e propria.

Resta, tuttavia, un scrittore nel protagonismo del dibattito politico e ideologico. Non fa parte della mia biblioteca tranne per un libro che considero significativo: “Lo stesso mare” del 1999-2000.

Un testimone nella letteratura internazionale degli ultimi anni in virtù del fatto che ha avuto la capacità di ergere a metafora i luoghi di una geografia che gli è appartenuta. Quella ebraica. Ed è qui la sua resa più forte, più profonda, più marcata.

Uno scrittore che si allontana dalla sperimentazione di un García Márquez. Altro spessore. Uno scrittore che scava nella parola per togliere tutto il lucido e farlo brillare. A volte ci riesce, molte volte no. Era nato a Gerusalemme il 4 maggio del 1939. È morto a Tel Aviv il 28 dicembre del 2018. Quella inquieta solitudine ha raggiunto la zattera e il passaggio verso i mondi degli Universi è una malinconia. Resta lo scrittore di un solo libro. “Lo stesso mare”. Il resto è tutto discutibile come scrittore. Ovvero ha fatto della sua scrittura una geografia di antropologie di civiltà. Ha fatto della letteratura una letteratura che vive di antropologie dei mediterranei. Chiude il suo “Lo stesso mare” con questa sottolineatura: “Ora levati, va in cerca, lieve e silenzioso alzati va’ cerca quel ch’é perduto”. Un messaggio labirintico oltre la la letteratura. Ma tutti viviamo in uno stesso mare.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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