Il vuoto pieno della stanza del tè

Il vuoto pieno nella stanza del the

Il vuoto pieno della stanza del tè

Di Mary Blindflowers©

Il vuoto nella stanza del the

Il the della donna gatto, mixed media on canvas by Mary Blindflowers©

 

Il vuoto come misura dell’uomo totale in simbiosi con la conoscenza dell’io, svincolato, sganciato da preoccupazioni di ordine mondano, un vuoto vuoto proprio ed essenziale perché pieno e paradossalmente anti-vuoto. La dimensione del vuoto della stanza del tè è un paradosso pregnante, un vaso comunicante l’essenza e il significato.

«Il cuore della cerimonia del tè consiste nel preparare una deliziosa tazza di tè; disporre il carbone in modo che riscaldi l’acqua; sistemare i fiori come fossero nel giardino; in estate proporre il freddo; in inverno il caldo; fare tutto prima del tempo; preparare per la pioggia e dare a coloro con cui ti trovi ogni considerazione», (Sen no Rikyū).

La cerimonia in realtà va ben al di là della preparazione di una bevanda colorata perché sottende significati simbolici di equilibrio, essenza, rinuncia e consapevolezza.

La lentezza relativa e voluta della orientale cerimonia del tè, elogio della lentezza, espressione estetico-filosofica dello zen, oggi è sintetizzata, snaturata, e velocizzata spasmodicamente nel famoso o famigerato, secondo alcuni, filtro per infusioni, paradiso imitazione-orientale compresso e adattato al veloce ritmo occidentale, plastificato agli ftalati rilasciati nel caldo dell’acqua, pratico, comodo, sintesi della sintesi, scevro da filosofie, da stanze cerimoniali, e da quell’incanto sottile e misterioso che è proprio delle attività lente e del vuoto consapevole della stanza zen, elogio dell’essenzialità.

Lo yoga non si compra, non è una salsiccia”, scrive Suketu Mehta, autore di Maximum City: Bombay Lost and Found, ironizzando sulla occidentalizzazione dello Yoga, sulla sua riduzione ad un certificato per fare business, ad una specie di ginnastica come tante altre.

E che dire delle filosofie orientali?

Svendute dentro mediocri canzonette di dubbio significato, sponsorizzate da calciatori e attrici in cerca di consensi e di emozioni esotiche, per cui diventare buddhisti è ormai diventato una vera e propria moda che, ovviamente ha il suo relativo business: statuine del Buddha in varie fogge e colori e materiali, pietre per catturare la luce e chissà cos’altro, anelli, amuleti, borse, stoffe simil-orientali che, della originaria filosofia non hanno più nulla, come i fac-simile delle banconote del monopoli.

Velocità e business hanno creato una società imitatrice e deteriorata in cui dall’auto-guarigione, allo yoga, dal tè velocizzato al Buddha, la gente prende quel che vuole dall’Oriente in pacchetti a pagamento e lo adatta alle sue esigenze del momento.

La dimora del vuoto dello zen che ha anche finalità in un certo senso socialmente eversive, come la rinuncia all’ostentazione, la semplicità di un vuoto fisico che si traduce in spazio mentale, come consapevolezza del sé priva di attaccamenti mondani, diventa sport da galline che, pagando un corso zen, fingono di meditare per qualche ora, guardano a mani incrociate e schiena perpendicolare un angolo del pavimento e poi tornano allo stress della vita ordinaria, dicendo agli amici che fanno meditazione zen, mentre sorbiscono un tè dentro una bustina piena di ftalati. Il tempo è denaro. Basta un ritaglio-niente del tutto, una compressione in pillole di filosofia spiccia, per sentirsi uomini nuovi che scavano nella profondità di una superficie senza profondità. Il tutto servito con attestati di partecipazione, diplomi di idoneità all’insegnamento dell’autocura, automeditazione, discipline orientali, e quant’altro. Uno straordinario giro d’affari.

La stanza vuota del tè occidentale è piena di denaro, non vi si vive più il mu-shin (無心, non-mente), ma la mente che mente a se stessa e lo fa continuamente.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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