Il sogno di un bibliofilo e altri scritti, di Gino Doria

Sogno di un bibliofilo

Il sogno di un bibliofilo e altri scritti, di Gino Doria

Sogno di un bibliofilo

Sogno di un bibliofilo, credit Mary Blindflowers©

 

 

Per caso ti capita tra le mani un curioso mini-libro di 13 cm, edizione I Vascelli, del 1993, serie rosa. Una rilegatura modesta, con le pagine e la copertina solo incollate, senza filo refe, sobria alla vista. Il titolo è Sogno di un bibliofilo e altri scritti, l’autore Gino Doria, nato a Napoli “il 26 ottobre 1888 al numero 13 di Via Carrozzieri alla Posta”, come informa la nota biografica che chiude il libro. “Spirito libero e insofferente di qualsiasi coercizione, non aderì al fascismo”, (notizia che mi rende già simpatico l’autore), “anzi l’osteggiò con l’unica arma a sua disposizione, cioè la penna”. A causa di un suo articolo del 1927 nella rivista italiana settimanale La Fiera Letteraria, articolo dal titolo: Romolo, Remo e Compagnia, Mussolini decise che Doria non poteva fare il giornalista professionista, dato che non aveva la tessera, (niente è cambiato da allora), fu così che l’articolista decise di dedicarsi alla letteratura.

Sogno di un bibliofilo è un racconto gustoso che si legge in poco tempo, breve ma denso, con un’architettura in cui si intuisce il finale, ma questo non turba la bellezza della narrazione, né le descrizioni certosine ma argute, il gusto del particolare che si rileva da una scrittura puntigliosa, precisa, meticolosamente curata, che attrae il lettore al gusto del bibliofilo protagonista e alla sua passione, come la volpe all’uva.

I personaggi sono come miniature tratteggiate finemente, l’ambiente reso visivamente da una penna che sa come descrivere senza annoiare, nonostante le puntualizzazioni passionali da bibliofilo visceralmente coinvolto dall’amore per i libri. L’autore precisa che egli vuole raccontare solo un sogno, un sogno che ha fatto in una sera fredda davanti al camino e con un libro in mano. L’incipit,  nonostante l’esclusione del c’era una volta, somiglia tuttavia ad una fiaba e ricorda l’inizio di quei racconti del focolare che animavano le sere invernali quando ancora non era nata la televisione, non c’era internet, ed era concesso sognare e rilassarsi secondo ritmi meno frenetici, ritmi che rievocavano folletti e fate: “Alcune sere fa, procacciatami una bracciata di legna, rimisi in attività un vecchio camino di casa. Dopo che la stanza si fu convenientemente riempita di fumo e frammenti bruciacchiati di carta, che svolazzavano qua e là come folletti, le legna cominciarono ad ardere e riscaldare; trascinai una poltrona innanzi al camino, mi ci accomodai nel miglior modo possibile e mi abbandonai alla mia lettura preferita: il vecchio Catalogo del Dura di Napoli. A poco a poco, come spesso accade innanzi ai camini, presi, dirò con mirabile verbo partenopeo, a capozziare, il libro mi scivolò di fra le mani, il mento andò a incontrare il petto, e presi a sognare…”.

Un attacco fiabesco in piena regola, con quel camino che viene rimesso in attività e che segna più o meno inconsciamente, il tema del recupero delle cose perdute, di un tempo che non torna ma può essere riacchiappato attraverso la materialità dell’oggetto, i libri, il cibo, il camino, la memoria, l’intatta capacità di sognare.

E l’autore sogna una sua lontana parente, la Baronessa Elodia Pandarese, una bigotta e avvizzita vecchietta che abitava in un castello piuttosto lontano e difficile da raggiungere se non dopo un viaggio e a dorso di mulo. La signorina desiderava che il sognatore andasse al suo maniero, per valutare antichi tomi.

Nel sogno Doria contatta il suo amico Riccardo Ricciardi, per andare insieme ad affrontare l’avventura. Ricciardi è negativo, non desidera spostarsi, poi invece si convince perché la passione per i libri è più forte della pigrizia. Tuttavia quando giunge il momento di salire su un mulo per arrivare sulla cima dove si trova il castello, riecco che Ricciardi fa storie. Per lui recuperano, (ecco di nuovo il tema dominante del recupero), una vecchia portantina e nerboruti uomini che lo portano in cima come se fosse un pascià d’altri tempi: “… dopo molti parlamenti qualcuno si ricordò che in un borgo vicino, la levatrice aveva – come nei tempi passati – una portantina. Riccardo sorrise all’idea, la portantina fu mandata a prelevare, si aspettò un bel pezzo perché arrivasse con due villosi e robusti portatori…”. Qui c’è l’attesa, un tempo che viene sottomesso alle regole non scritte della lentezza, contrapposte al dinamismo alienante della modernità. Il ritmo è volutamente ed efficacemente lento, perché non solo dà l’idea della suggestione onirica che non ha esigenze crono-temporali, ma altresì comunica un senso di pace, di riflessione, di pigrizia fisica che però si intuisce chiaramente, non è sintomatica della pigrizia intellettuale dei protagonisti, svegli e attenti. La lentezza diventa un valore da recuperare, un frammento di isola felice da salvare per aiutare a pensare, a valutare le cose e la vita.

Arrivati al castello, i due viaggiatori vengono accolti dalla vecchia signora con portate e cibi pantagruelici che rievocano la cena di Trimalcione, oppure certe descrizioni di Rabelais o di Mann: “Tutti i miei complimenti, ripeto, Buddenbrook!» la voce poderosa del signor Köppen soverchiò la conversazione generale, quando la cameriera con le nude braccia rosse, il pesante abito a righe, la cuffietta bianca sulla nuca, aiutata dalla signora Jungmann e dalla cameriera della moglie del console, ebbe servito la bollente zuppa di erbaggi con il pane abbrustolito e cautamente si cominciarono a usare i cucchiai. […] I piatti furono cambiati di nuovo. Comparve un enorme prosciutto dalla crosta impanata, rosso mattone, affumicato e cotto, con salsa di scalogno bruna e aspretta e con una tale quantità di legumi che da un solo piatto tutti si sarebbero potuti saziare. Lebrecht Kröger si assunse la funzione dello scalco. I gomiti leggermente rialzati, i lunghi indici distesi sul dorso del coltello e della forchetta, tagliò con precauzione le fette sugose. Fu servito anche il capolavoro della moglie del console, la “terrina russa”, una composta di varia frutta conservata sotto spirito e piccante” (Th. Mann, I Buddenbrook, trad. it. F. Jesi e S. Speciale Scalia, Garzanti, Milano 2003).

Scrive Doria: “Mangiammo cose strabilianti, strabilianti anche in regima di sogno: capicolli del Salernitano, famosi già nella storia, coppe del Lazio, prosciutti di montagna dell’Avellinese, galantine di pollo, di vitella, di porco, di selvaggina, olive, funghetti e fondi di carciofi conservati nel più limpido olio del Cilento, acciughe della spiaggia di Palinuro, filetti di sgombero di Nantes, sardine portoghesi, caviale nero e caviale rosso, bottarghe di Sardegna…”

Anche nel lungo elenco di cibi apparentemente “innocui” appare il tema del recupero del tipico, del cibo buono di ogni regione nella sua accezione qualitativa, con concessioni all’intruglio classico: “cervelli di pavone intrisi di miele, cannella e noce moscata”.

La descrizione non è fine a se stessa, ma veicola significati che vanno oltre il cibo.

Lo stesso dicasi quando i protagonisti entrano nella biblioteca, fucina di meraviglie, Eldorado perduto per cui val la pena di litigare…

Leggete Sogno di un bibliofilo, anche se l’autore è poco conosciuto, perché vale la pena. Non sempre tanta fama corrisponde a tanta bravura e ci sono autori dimenticati che andrebbero recuperati e che non vengono mai studiati a scuola, chissà perché?

Al lettore le intuibili risposte.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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