Madame Raboni critica Leopardi

Madame Raboni critica Leopardi

Madame Raboni critica Leopardi

 

Leopardi non è un poeta.

Fiore vizzo, credit Mary Blindflowers©

 

Madam Raboni critica Leopardi

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Lucio Pistis & Sandro Asebès©

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“Leopardi voleva essere un poeta, lo voleva intensamente, scriveva in prosa, andava a capo e poi tagliava a capo, endecasillabi… sono meccanici… è venuto a Milano, ha bussato alla porta del Monti. All’inizio Monti lo ha accolto gentilmente e poi si è scocciato di avere questo gobbo di un metro e quaranta che mangiava solo gelati in casa e lui ha cominciato a parlare male di Monti. Prima vai dal Monti, gli chiedi i pareri, i consigli, e poi lo seppellisci. Monti è ancora seppellito sotto un giudizio malevolo e ingiusto…”, queste le parole di Patrizia Valduga qualche tempo fa, in occasione del Premio Arca Cna. Teatro Accademico di Castelfranco Veneto, pronunciate con voce melliflua, in guantini neri e come se si stesse masturbando, riferite ad uno dei più grandi poeti della letteratura italiana, che secondo il parere di questa signora la cui fondamentale qualità è stata probabilmente solo quella di essere l’amante di Raboni, noto critico letterario, non sarebbe nemmeno un poeta, ma un perfido nano di un metro e quaranta, avido di gelati e invidioso, propinatore di una poesia fredda e meccanica.

Analizziamo una poesia di Leopardi che secondo la Valduga sarebbe tecnica e priva di emozione:

L’Infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Ora leggiamo una poesia di Patrizia Valduga:

Da La tentazione, (ristampa 1997 – Einaudi)

In questa maledetta notte oscura

con una tentazione fui assalita

che ancora in cuore la vergogna dura.

Io così pudica, così compita,

vedevo un uomo a me venire piano

e avvolgermi quasi avido la vita;

un altro ne veniva e con la mano

oh delicatamente lui mi apriva,

e un altro e un altro e un altro ch’era vano

a guerra apparecchiarmi d’armi priva

già incatenata, e senza una catena,

nel tempo che la vita non par viva.

“Non vuoi? piccola piccola sirena…”

Posso io non volere e star da lato?

“Oh lasciatemi!” e respiravo appena,

il cuore dalla sua sede saltato.

Con cento mani vinte le mie braccia

Tutte le ossa mi avevano contato,

ad ogni cavità davan la caccia;

nel denso, nelle viscere spremuta,

in una tomba di carne che schiaccia

e macina e mette al niente… perduta.

Che mai feci, che mai feci mio Dio?

Mercè, pietà, perdono, chi mi aiuta?

Diremmo che nella vita autoreferenziarsi è una soluzione oramai in voga che elide i crucci del confronto dialettico per tanta gente; pertanto, non ci meravigliamo se la Valduga preferisca se stessa, tacciando di essenzialità tecnica la poesia di Leopardi, e viceversa ritenga densa di afflato contenutistico e di sostanza le sue; i deliri di onnipotenza sono problematiche del genere umano che Freud affrontò con dovizia di indagine.

Innanzitutto dovremmo scartavetrare che cosa intenda la Valduga per tecnica e perché sottenda in essa una valenza disvalorica; se un fabbro è ispirato nella sua manifattura, supporta il suo afflato creativo mediante l’expertize e le modalità peculiari e specifiche del suo mestiere artigianale, e questo sostegno non può che essere dato dalla tecnica maturata nel corso degli anni del suo expertize; altrettanto dicasi per il pittore, per l’architetto e per ogni campo dello scibile umano; ed è incontestabile che nell’“Infinito” di Leopardi si grondi della tecnica ritmica e prosodica del poeta allenato già da adolescente a creare sensazioni ed emozioni sulla base delle sue osservazioni introspettive ed ambientali in relazione al sito abitativo.

Noi ci auguriamo, per esempio, che la Valduga si sia accorta di quante volte e se per lei avvenga inconsciamente o scientemente, il poeta trasporti nel proprio lessico la fisicizzazione della localizzazione del suo meditare, usando gli epidittici in forma aggettivale o pronominale (questo e quello): ben 8 volte; se è un ritrovato tecnico e non un tutt’uno emotivo dal pensato allo scritto, ci spieghi la Signora perché a noi come a tantissimi critici questo martellio di dimostrativi pare la sublimazione dell’intento indicativo che porti il lettore hic et nunc in simbiosi con il protagonista di quella meditazione; così come altrettanto volutamente incalzante è l’orgia di sibilanti scempie o geminate (23) cui il poeta ricorre per far rivivere a chi legge ed ascolta il sibilo e lo stormire delle fronde oggetto del suo attento osservare. E ci auguriamo ulteriormente che la Valduga, ad esempio, possa essersi resa conto che a completare la mimesi del rumore del vento tra le piante (manco a farlo apposta, definito nella lingua dei padri col verbo frusciare gravido di insinuanti sibilanti e di acustiche rotanti) l’autore esploda altrettante rotanti, a simboleggiare l’effetto acroamatico: sì, Eccelsa Valduga, altrettante: 23 sibilanti per 23 rotanti! Tecnica? E le pare una deminutio capitis per la eccellenza della poesia? E che, dovremmo privilegiare in antitesi le banalissime asimmetriche alternate della sua timida invocazione ad evitar la penetrazione di gruppo? Parce sepulto; le emozioni sigillate da sublime tecnica dal sommo di Recanati sono state tradotte in ogni lingua, generando stupende assonanze perfino da una lirica che nell’originale ne è priva: legga, Eccelsa Valduga, legga:

Always dear to me was this secluded hill ‘n’ this hedge

barring the sight to such a big part of horizon’s edge,

but sitting’n’gazing endless spaces, supernatural hush,

the deepest quiet I fake in my mind beyond that bush

so that my heart is almost scared. And as rustling I hear

the wind through these trees, that endless silence here

to this voice comparing I keep and the Eternal I remember,

the dead seasons, the current alive one, the sound of her.

Therefore so in this vastness I let drown my own thinking

and indeed very sweet is for me in this deep sea sinking.

Se ne faccia una ragione: creare emozioni dal nulla universalizzando per ogni uomo quelle sensazioni individuali ed intime che il nano, come sprezzantemente lo chiama lei, avvertiva sul colle attiguo ai palazzo del Conte Monaldo, non è pertinenza della sua filastrocca rimata densa di indistinte pulsioni che nascono nella sua camera di casa e lì rimangono: lasci pure i penta-stupratori alla vana ricerca del suo consenso introitante: la poesia ne rimane avulsa e perfettamente distante! Ed a proposito di tecnica, impari a sceverare le interiezioni e le invocazioni dal resto del verso con debito asindeto, e anche a far di conto, perché, se non abbiamo sbagliato l’enumerazione dei satiri in agguato, per 5 stupratori le mani non possono esser 100, ma dieci. Non c’è da provare vergogna per una voglia notturna trasgressiva alla Eyes Wide Shut, creda! È umano! Disumano è chiamarla poesia!

https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=Ol2wBaa3Cq4

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