Marinetti, arte e vita futurista, le finte rivoluzioni culturali

Marinetti, arte e vita futurista

Marinetti, arte e vita futurista, le finte rivoluzioni culturali

Di Mary Blindflowers©

 

Marinetti, arte e vita futurista

Marinetti, arte e vita futurista, credit Mary Blindflowers©

 

Claudia Salaris dà alle stampe nel 1997 “Marinetti, arte e vita futurista” per Editori Riuniti. Pessima veste editoriale, carta di scadente qualità, prezzo elevato, in quegli anni ben 38.000 lire per una brossura dalla copertina molto sottile e deperibile. Veste editoriale a parte, si tratta di un saggio biografico ben strutturato, documentato, corposo, di 382 pagine e scritto molto bene, con puntualità, notazioni anche curiose o poco conosciute sulla vita dell’avanguardista.

L’autrice ricostruisce la personalità contraddittoria del fondatore del futurismo, “vagliando criticamente le testimonianze, correggendo eventuali inesattezze”, così recita la quarta di copertina.

E in effetti si tratta di un libro scorrevole, dall’esposizione chiara, precisa, mai noiosa, ricca di episodi, citazioni illuminanti e notizie che fanno capire al lettore i meccanismi reali attraverso i quali un personaggio diventa tale, grazie ad un miscuglio propagandistico ben concertato di politica e denaro che attirano consensi, rafforzano le ideologie non sempre lineari e coerenti, e danno forza a ciò che non avrebbe vigore, senza le succitate due fondamentali componenti.

Emerge un ritratto a tinte forti di un uomo che sapeva pubblicizzare se stesso attraverso lo scandalo, un talento nel riuscire, con gran dispendio di denaro, a far parlare sempre di sé.

Marinetti era figlio di un milionario di cui le malelingue dicevano che aveva fatto fortuna con dei bordelli che possedeva in Egitto. Avendo ereditato il patrimonio del padre, Filippo Tommaso pensò bene di investirlo a fini propagandistici e di creare un movimento scopiazzando un nome, “Futurismo”, che era stato già usato dallo spagnolo Gabriel Alomar. Questi nel 1904 tenne una conferenza nell’Ateneo Barcellonese, conferenza intitolata guarda caso “El futurisme”. Ed è impossibile non ravvisare nelle interrogative retoriche dei primi manifesti futuristi italiani, una forte somiglianza con lo stile di Alomar. La Salaris, esperta di avanguardie, non si addentra nell’analisi di differenze e somiglianza, ma onestamente ammette che probabilmente Marinetti aveva letto sul “Mercure de France”, la notizia della conferenza e quindi aveva utilizzato il termine Futurismo, coniato da altri, per il suo movimento: “Su La Nacion di Buenos Aires, Ruben Darío, protagonista del modernismo latino-americano, rivela che il nome del movimento appena nato, è stato inventato qualche anno prima dallo scrittore catalano Gabriel Alomar. Il destino di quest’ultimo è stranamente intrecciato con quello di Marinetti: nato a Palma di Maiorca, concluderà proprio in Egitto i suoi giorni; nel 1905 a Barcellona, ha stampato in volume il testo di una conferenza intitolata “El Futurisme”, cui successivamente il “Mercure de France” ha dedicato una recensione che forse Marinetti ha letto, essendo molto legato al giornale di Vallette (nelle sue edizioni ha pubblicato infatti Le Roi Bombance)” (p. 67).

Stefania Stefanelli approfondisce ulteriormente la faccenda sostenendo che in realtà neppure Alomar ha coniato il termine: “Nonostante le orgogliose rivendicazioni di paternità da parte di Alomar, neppure suo è stato il conio assoluto della parola futurismo: nell’accezione filosofica di “senso, coscienza del futuro” veniva già usato da Gioberti (Barberi Squarotti 1961: s. v. “Futurismo”) e il sintagma littérature futuriste è attestato in Francia nel 1896, anche se non sembra che abbia relazione con le correnti letterarie dell’epoca, quanto piuttosto che sia un prestito isolato dall’inglese futurist, nel senso appunto di “tournée vers l’avenir” (Imbs 1971: s. v. “Futuriste”). Ed effettivamente, l’aggettivo inglese futurist, attribuito a colui che crede che le profezie delle Scritture debbano compiersi nel futuro, è attestato nel linguaggio teologico fin dal 1842 (Simpson; Weiner 1989: s. v. “Futurist”). L’aggettivo, dunque, gode di una lunga tradizione nelle lingue di cultura europee, anche se ristretta a circoscritte aree intellettuali. Non si riscontrano invece attestazioni così antiche né nell’inglese né nel francese per il nome Futurismo, la cui quasi contemporanea fortuna presso lo scrittore catalano e presso il poeta italiano può essere dovuta all’ampia diffusione degli -ismi nell’arte di quegli anni. In ogni caso, non si può escludere che sia la scelta del termine futurisme, sia il tono profetico che anima tutto il saggio di Alomar trovino una medesima radice in correnti di spiritualismo religioso che percorrevano le società intellettuali del primo Novecento, in conflitto con il sapere positivista declinante” (Stefania Stefanelli, Il futuro nel futurismo, p. 86).

Il battesimo ufficiale del futurismo italiano avvenne con la pubblicazione del Manifesto nel giornale parigino “Le Figaro”, dove Marinetti riuscì ad ottenere uno spazio, previa raccomandazione, come accade del resto anche oggi. Scrive infatti Claudia Salaris: “Se diamo retta alle memorie dell’autore, sembra che Marinetti sia riuscito a pubblicarlo sul quotidiano francese grazie ad un amico di suo padre, Mohamed el Rachi Pascià, ex ministro egiziano settantenne epicureo, pariginizzato e azionista del giornale Le Figaro…” (p. 62).

Il successo di Marinetti fu dovuto principalmente alla pubblicità, come ebbe a sottolineare saggiamente Palazzeschi: “Marinetti aveva capito fin da allora il potere della pubblicità che doveva raggiungere fatti e persone a tutte le profondità e a tutte le altezze, nessuno escluso, della compagine sociale e riservata allora esclusivamente per le pillole Pink, il cerotto Bertelli e la chinina Migone, usarla per i problemi dello spirito era ritenuto dai benpensanti tale ignominia per cui nessun vocabolario possedeva una parola infamante per poterla degnamente qualificare… aveva portato la discussione nei teatri e sulle piazze, con intervento del mondo animale in massa e di quello vegetale in sacchi e condizioni adeguatamente avariate; lanciando a milioni i volantini lungo le vie, provocando polemiche arroventate ovunque con pugni e schiaffi, pugilati, invettive e male parole, combinando un putiferio come mai si era visto l’uguale e intervento della Polizia oramai indispensabile…”

Alle serate futuriste infatti non mancavano risse, lanci di frutta e patate marce, fischi, polemiche e intervento finale della polizia, per cui il giorno dopo tutti i giornali parlavano dei futuristi.

Ovviamente il costo del volantinaggio e dell’affitto degli spazi teatrali, del giornale futurista, era tutto a carico di Marinetti che provvedeva anche a stampare da solo i suoi stessi libri che poi regalava a gente importante, in modo da farsi conoscere.

Il testo della Salaris spiega anche il rapporto futurismo-fascismo, l’impossibilità di un dialogo con la sinistra gramsciana per via delle cristallizzazioni retoriche marinettiane, e la lenta agonia del movimento fino alla morte fisica della “carne piangente” che si era illusa di essere affine alla macchina.

La parte discutibile del libro della Salaris è il tentativo dell’autrice di giustificare l’idea marinettiana della guerra come igiene del mondo, ideale dell’arte e della lotta per la vita. C’è un’ansia contestualizzatrice che cerca di indorare la pillola dell’esaltazione guerresca con la considerazione che “la storia” sia “più complessa di quanto ai posteri non sembri” e che “i nodi politico-culturali e antropologici di quel periodo” siano “difficili da sciogliere”. “Proprio per questo  non si dovrebbe “separare il futurismo dal contesto generale in cui la corsa al bellicismo” era “elemento costante” (p. 163). Poi cita altri autori, Salvemini, Amendola, Freud, Marx, Hegel, Eraclito, etc. che hanno esaltato la guerra, come se il fatto che altri interpreti della storia abbiano detto sciocchezze, possa essere una giustificazione per le stupidaggini guerrafondaie marinettiane.

La pretesa di ridurre la portata delle esternazioni marinettiane sulla guerra ad una facile contestualizzazione, “contestualizzate la questione del bellicismo per non vedere in Marinetti il primo interprete letterario di quello spirito della necrofilia di cui ha parlato Erich Fromm”, appare assurda agli occhi del lettore odierno, perché il pacifismo poteva essere anche allora una scelta rivoluzionaria che Marinetti non fece mai. La storia gli ha dato torto, l’aver aderito al delirio del fascismo, e l’aver introdotto l’arte-propaganda, quella che fa successo per chi ha i mezzi economici per pagarsi la pubblicità e far parlare di sé, non è stata poi una grandiosa rivoluzione culturale, ma un impoverimento che oggi ha assunto dimensioni davvero preoccupanti.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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