Ma la storia dov’è?

Ma la storia dov'è?

Ma la storia dov’è?

 

 

Ma la storia dov'è?

La Stella Nera di Mu, by Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

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L’uomo cammina

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L’aria è ferma, irreale, una giornata qualunque di un uomo all’apparenza ordinario che fa le stesse cose da anni, si fa la barba, si infila la camicia, si lava, si pettina, fa colazione ed esce.

Esce e si immerge completamente in quell’aria ferma, in quell’irrealtà esistente al di fuori di lui.

La strada è la lingua srotolata di un cane, lunga, viscida di brina e solitaria. Le case sembrano piccole e vuote, le finestre bocche fameliche che guardano verso il nulla. Il vuoto domina tra uno spazio e l’altro, regna ed impera, ingoia l’asfalto grigio e freddo, divora impietoso il giorno e la notte, la musica e il canto di ogni vita presente e futura.

L’uomo è solo. La sua solitudine non è soltanto fisica, è piuttosto un dolore interiore, un’angoscia indefinibile, profonda come una ferita che arriva dentro lo stomaco, che pesa sulle spalle, lede le viscere, si insinua nel respiro, nella testa e fa male.

Incrocia lo sguardo giallo e sofferente di un cane randagio. Pensa e trema un po’ sotto i vestiti. Brividi leggeri, senza senso, puramente emozionali. Voci non se ne sentono, neppure il minimo alito o soffio di vento. Un silenzio irreale, quasi metafisico avvolge ogni cosa, ogni attimo e fiato.

È troppo presto ancora, presto per vivere e presto per morire, presto in tutti i sensi, filosofici e temporali. Il sole non ha ancora scacciato le ombre notturne. Le mani del buio si aggrappano disperate alle facciate delle case con le unghie nere e affilate affondate nella tenera carne dei tetti. I piedi veloci e freddi dell’oscurità corrono, corrono per non farsi bruciare dai primi raggi cocenti e distruttori del sole nascente, per non diventare polvere e maceria di tenebra, ceneri dimenticate. La notte, come tutti, mal si rassegna a morire in sfumature di grigio e poi nella pienezza crudele e indecente della luce.

Intanto l’uomo cammina, col peso della sua borsa da lavoro, col peso dei suoi anni, dei suoi prolungati silenzi e complessi interiori, portando a spasso l’anima dentro la plasticità indifferente dell’aria tersa. Eccola, la creatura è lì, davanti a lui, in piedi, bellissima, regale, come sempre. Neanche una ruga, neppure un capello bianco, non invecchia, non può e non si sa se questo è un bene o un male, è semplicemente così. Una bellezza irreale e senza tempo.

Il sorriso dell’uomo si allarga in un ghigno amaro. La creatura è la sofferenza, il nodo, il principio e la fine, il velenoso miele del destino. Mentre scende tre dei nove gradini di pietra che lo separano da lei, la chiama per nome: «Luce!». Una parola che scaccia le tenebre e gli incubi. Luce…

Il nome rotola sul silenzio duro dei gradini, sulle piccole case, sulle antiche pietre lucidate dagli elementi. Gridato e gettato d’improvviso nel mondo, piove come un macigno sul buio congestionato e stremato, sfumato dall’alba assassina e crudele.

Luce si volta, perché il nome ha potere, è una chiave, una parola magica che apre mondi arcani.

Il suo nome gridato riecheggia potentemente nell’aria. Schiaffeggia la polvere annosa, mentre il buio trascolora in un viola pesto sempre più chiaro. Luce arriva, sale tre gradini, è talmente vicina che l’uomo può sentirne l’odore. Sa di indefinibile vento, di rose ammaccate, ferite, di muschio selvatico. È vestita di bianco, i capelli d’ebano lunghi, le unghie di un bianco argento che acceca, come lame pronte a colpire. Gli occhi sono invece abissi neri di vuoto, profondi come piaghe antiche, mobili isole nere nella bianchissima asettica sclera. Occhi grandi, tristi come scogli di un mare perduto ed ormai prosciugato da qualche malia, mai bagnati da lacrime salse.

L’uomo guarda Luce, naviga nel petrolio di quelle perforanti pupille, un oceano denso, appiccicoso. Non ci sono barche né braccia, né muscoli, né tantomeno emozioni umane, che possano capire quell’infinito nero, pozzo petrolio senza inizio né fine, vortice che ha visto mondi paralleli e ne porta l’impronta indelebile e oscura.

L’uomo non può farcela, è debole, simile al buio trascolorante nel grigio che si dissolve nell’aria. Luce lo vince, è più forte, inumana, ha qualità superiori e sangue e muscoli di un mondo diverso. Le sue unghie d’argento affondano nella carne dell’uomo, la stretta ferisce il braccio e idealmente lacera il cuore, lo riduce in piccoli pezzi.

L’uomo sanguina, il caldo del sangue che esce dal braccio si confonde col freddo della pelle di lei. Eccolo, l’uomo si arma di un pezzo appuntito del suo inutile, patetico e debole cuore. A parole lo scaglia, e colpisce, colpisce con la lingua che funge da arma e poi con la mano. Ora impugna un tagliacarte affilato davvero. Colpisce. Luce è ferita, cade.

La creatura si lascia cadere senza abbandonarsi agli eventi.

E tutto finisce? Così con una ferita che cade?

La storia dov’è?

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

https://www.amazon.co.uk/STELLA-NERA-MU-Antiromanzo-Anarco-Surrealista/dp/191142422X

https://www.emigratisardi.com/news/articoli/articolo///la-stella-nera-di-mu.html

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