L’insufficienza fumosa del linguaggio e delle definizioni

L'insufficienza fumosa del linguaggio e delle definizioni

L’insufficienza fumosa del linguaggio e delle definizioni

Di Mary Blindflowers©

In principio era il legno, unique sample, linocut by Mary Blindflowers©

In principio era il legno, unique sample, linocut by Mary Blindflowers©

 

 

La parola è insufficiente ad esprimere stati d’animo ed emozioni, è limitata nella sua stessa essenza perché opta un trasferimento di pensiero in cui, nel percorso dalla metafisica dell’idea alla sua enunciazione, attraverso il mezzo espressivo della parola, si finisce inevitabilmente per perdere qualcosa. E non c’è talento letterario che tenga, non c’è poeta che non sappia questa fondamentale verità. Lo stesso Dante sottolineò l’inadeguatezza del linguaggio rispetto alla sublimità divina, quasi inesprimibile perché nel viaggio tra immaginazione e espressione qualcosa muta. Questo accade perché la parola è pur sempre convenzione. Tra il termine paura che definisce un sentimento che molti interpretano come comune, e la realtà vera della paura, esistono talmente tante e differenti sfumature di senso ed intensità, che non è possibile riprodurre in modo convenzionale questo sentimento solo servendosi della parola. Per questo solo chi prova un certa particolare reazione può capirla a fondo in tutte le sue implicazioni, mentre chi la descrive senza viverla può solo esprimerla a parole che sono limitate. Ma le stesse parole di chi l’ha vissuta lo sono, limitate, perché nel viaggio tra vivere e parlare, si perdono molte cose indefinibili.  La parola non è sostanziale, è soltanto convenzionale, si adatta ad un’idea generale che non corrisponderà mai a quella reale, semplicemente perché non esiste parola che possa esprimere la profonda e talvolta drammatica complessità del mondo metafisico. Lo stesso concetto di infinito è in realtà inesprimibile, non solo perché nessuno è mai stato proiettato nell’infinito, ma soprattutto perché ciascuno ha una sua idea dell’infinito che non riesce ad esprimere fino in fondo, causa l’inadeguatezza stessa della parola che è finita per sua stessa costituzione. Così l’idea di infinito, dopo aver transitato lungo le fasi multiple della fantasia, viene catalogata dentro il maxigruppo degli stereotipi collettivi, nello scatolone infinito, come qualcosa che non ha inizio né fine.

Name ist Schall und Rauch, la parola è rumore e fumo, come diceva Faust nel dialogo con Margherita. L’infinito e lo stesso concetto di dio non sono traslabili nell’esperienza finita dell’uomo di cui anche la parola fa parte. La temporalità non riesce a cogliere fino in fondo l’eterno, anche perché l’eterno non ha un fondo. La denominazione di ogni cosa è un atto di superbia che non va confuso con la realtà, perché il nome definente non definisce mai completamente, è un’illusione del potere, della volontà di controllo su un mondo, che per fortuna non potrà mai essere controllato del tutto, in quanto il mistero che sfugge durante il passaggio dall’emozione e dall’idea alla parola, non morirà mai. Il desiderio di annullare questa scandalosa e anarchica misteriosità, attraverso la cultura, attiene al superomismo fatuo delle classificazioni che esprimerebbero tutto. Nominare non è dare significato onnicomprensivo, ma semplicemente dare un riconoscimento, mentre il senso che è racchiuso nel senso che contiene un altro senso, sfugge e va per conto suo. Il linguaggio non è come dice Severino, una sapienza, semplicemente perché non esiste una sapienza, esiste una volontà di potenza nella denominazione da non confondere con la sapienza che è inconoscibile, tant’è che più si studia meno ci si accorge di sapere.

Non sappiamo niente, questo è quanto, perché il mistero ci domina.

Cerchiamo soltanto di tastare nel buio dei punti di riferimento che ci facciano capire più o meno dove siamo e dove stiamo andando, dei punti riconoscibili a cui abbiamo assegnato un nome e che abbiamo immagazzinato nella nostra coscienza collettiva per stare tranquilli, all’ombra di una sapienza fallace di fronte alla quale il mistero ride e si fa beffe di noi, poveri uomini mortali e ignari di tutto, che pensano di avere il mondo nella tasca bucata delle definizioni. Uomini che cercano di dominare, di plasmare, di convincere, di trascinare il mondo, mentre ne vengono trascinati. C’è uno spazio che Wittgenstein definisce unaussprechlich, indefinibile, che non può essere nominato semplicemente perché non si può esprimere a parole. Secondo la tradizione mistica islamica, Allah ha novantanove nomi con cui l’uomo può chiamarlo, ma questo stesso uomo non potrà mai sapere il centesimo nome di Dio.

Il linguaggio può esprimere dunque solo una sezione frammentaria di una realtà che ha molti aspetti oscuri e nella quale permane costantemente un filtro misterioso che in fondo costituisce la sola sapienza possibile, perché è proprio in virtù dell’inarrivabile che si formano le speculazioni. Se tutto fosse chiaro fin dall’inizio, nessuno avrebbe dubbi e nessuno penserebbe oltre ciò che vede; se non ci fosse nient’altro oltre al fenomeno evidente e palese per tutti, se il linguaggio universalizzasse e definisse alla perfezione, non ci sarebbe nemmeno l’idea di sapienza. La simbologia nasce dall’inadeguatezza del linguaggio, lo aiuta a vedere oltre l’evidenza. La parola infatti è insufficiente perché non esprime la sostanza del mondo, non ci riesce, è solo un faro nella notte che squarcia una parte di buio creando un alone di luce attorno, ma tutto il resto rimane ancora in ombra, è là che l’immediato è bandito, è là che si muovono tutti i dubbi di buona volontà. E là che chi muove chi sa di non sapere niente.

Il linguaggio cerca solo di tirare i fili del mistero vero la luce del visibile e nel fare questo spesso sbaglia, appiattisce, universalizza, per darci una luce fatua che ci scalda, offrendo stereotipi ben nominati dietro i quali ci sono mondi da scoprire e una ragione da muovere e che ci muove, nostro malgrado.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

Comment (1)

  1. Mariano Grossi

    Analisi perfetta. Sintomaticamente più volte ci capita di fronte ad emozioni fortissime di esprimerci con : “Non ci sono parole!” Una di sintesi di ciò che l’autrice analizza con la solita proverbiale efficacia.

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