Salvatore Quasimodo nella grecità dei miti

Quasimodo nella grecità dei miti

Salvatore Quasimodo nella grecità dei miti

Di Pierfranco Bruni©

Quasimodo nella grecità dei miti

Bacco, credit Mary Blindflowers©


A Roccalumera le eredità di Modica. La grecità sommessa. “…la corda… mediterranea…”. La virgilianità che recupera l’omerico senso del viaggio. Il pianto antico. Il vento che raccoglie le ore di Tindari. La madre nella sua “dulcissima” ora. Il padre tra le macerie della guerra e del tempo che diventa rovina di una nostalgica memoria.

Salvatore Quasimodo, (nato a Modica il 20 agosto del 1901, formatosi a Roccalumera dove ha attraversato radici e infanzia, e morto a Napoli il 14 giugno del 1968) in una religiosa parola che diventa linguaggio dell’uomo nella sua contemporaneità e nella sua pietas. Una madre. Una terra. La ricerca della cristianità. Salvatore Quasimodo ha cercato di leggere la madre e la terra con la spiritualità e la testimonianza.

Nella sua vita si intrecciano Giorgio La Pira e Luigi Pirandello. Si intreccia la Magna Grecia. I lirici greci. Soprattutto Leonida di Taranto. La sua voce è un abitare il vento e le voci greche del Mediterraneo.

Quasimodo:

Il greco ritornava a essere ancora un’avventura, un destino a cui i poeti non possono sottrarsi”. 

A Leonida di Taranto dedica, oltre alla traduzione, un saggio di straordinaria valenza estetica. L’esilio interiore di Leonida è il suo esilio in viaggio. 

Di Leonida dirà:

“… era un uomo libero, figlio di una città che ai tempi in cui vi abitava era ancora l’emblema di una confederazione civile nemica dei compromessi e favorevole al rispetto dei diritti dell’uomo…”.

Una terra che è isola. Un’isola che è mondo arabo e greco. La stessa terra, lo stesso viaggio, lo stesso camminamento esistenziale.

Giorgio La Pira fu suo amico.

Si parla di una ricerca che non è soltanto storica con un vento mediterraneo che soffia su Tindari e su Modica o su Pozzallo. Una ricerca che stringe in un battito l’Uomo e il Divino.

La “Mater dulcissima”  di Salvatore Quasimodo ha la malinconia onirica dei cammini che scavano nella coscienza della propria esistenza. Ha la nostalgia del viaggio che diventa subito errante dimensione di una eredità mai pervasa dall’oblio.

Il distacco e la lontananza.

Sono due riferimenti obbligati che toccano la sfera della sensibilità, ma anche la “cifra” del tempo che sgretola ogni certezza. Il tempo non ha certezze perché tutto distrugge nel momento in cui “scendono le nebbie”, ovvero quelle nebbie che si metaforizzano in un esilio che nasce dalla diaspora.

Il dolore è l’immenso che trincera ogni lontananza.

La madre è la ferita nella dolcezza.

La madre quasimodiana ha molta attenzione di un immaginario antropologico che si vive nel dialogo tra Pirandello e sua madre. In Quasimodo, corregionale non solo geografico di Pirandello, si avverte la melodia della malinconia che si legge nel drammatico orizzonte di una sicilianità che è tragico senso mediterraneo.

La corregionalità, appunto, non è solo una appartenenza fisica ad una terra, ma è un sentire comune di un passaggio che diventa paesaggio del senso delle tristezze velate anche nel suono delle parole.

C’è in entrambi il linguaggio della tristezza.

Quella morte di pietà  e quella morte di pudore di Quasimodo è un attraversare i solchi di una morte sdoppiata in Pirandello, quando, lo stesso Pirandello, si pone davanti ad una riflessione che diventa l’enigma della vita.

Sono io che sono morto in te, dice Pirandello alla madre che non c’è più. Lui si sente figlio ed è figlio di una madre che non c’è più. Il figlio è nella consapevolezza dell’assenza della madre. Un incastro certamente metafisico, ma distante da una spiritualità cristiana.

Quasimodo si specchia nell’uomo, in quell’uomo che vedrà crocifisso o battere il sogno nella carlinga di un aereo. La Pira vive il suo Cristo che diventa il Cristo della Resurrezione attraverso la Parola. Quella Parola che “userà” il suo amico – fratello Quasimodo per recitare il dolore e la magia dei linguaggi nelle distanze oltre l’isola.

L’isola è l’appartenenza metafora sia di Giorgio che di Salvatore. Una appartenenza che resterà tra le pieghe del cuore e lungo i destini nel dettato delle loro lettere che formeranno un carteggio di vita e di tagli di esistenza in una teologia e in un mistero in cui l’Essere è il tutto del loro viaggio verso il continente.

Nelle lettere di La Pira c’è la geografia di una consistenza umana nella quale l’incontro diventa una eredità di vite vissute lungo i sentieri dell’ascolto o degli ascoolti. Un carteggio che è  rintracciabile nel testo di G. La Pira – S. Quasimodo, “Carteggio”, curato da A. Quasimodo,  e pubblicato da Schewiller nel 1980; nel 1998 verrà pubblicata una nuova edizione ampliata e annotata e curata da Giuseppe Miligi, per l’editore Artioli.

La Pira, (generazioni della Messina terremotata) pone delle riflessioni molto attente sul legame tra la poesia e la religiosità della parola. Un La Pira che aveva studiato e amato scrittori come Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti. Un La Pira che conosceva la letteratura non solo della teologia del linguaggio poetica ma anche della sperimentazione delle avanguardie. Tanto che scriverà nel 1928 in una lettera da Monaco di Baviera questa chiosa straordinaria:

disponi della tua vita come un’offerta che tu, giorno per giorno offri al Signore: pensati apostolo (…) quando avrai reso così il tuo essere … quali altezze conquisterai col tuo canto?”.

La poesia come messaggio apostolico. È la bellezza del pensiero che esce da ogni sottosuolo e diventa miracolo per un ascolto della Parola che è sempre dettata da Cristo. Giorgio La Pira portava la dolcezza nel pensiero e la forza della delicatezza nella voce.

La religiosità di Pirandello diventa sempre più antropologica, di una antropologia dell’umanesimo perché è l’uomo che resta e la sua assenza si fa assenza – distacco.

Forse in ciò si differenzia Quasimodo quando recita fortemente: “Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori”, e quando, soprattutto, sottolinea “dell’ironia che hai messo sul mio labbro, mite come la tua”.

Il filo del dialogante legame con la madre tra Quasimodo e Pirandello sembra addirittura un paradosso.

In Quasimodo insiste il sorriso e l’ironia.

In Pirandello il dolore dell’assenza  svuota di rimpianto il viaggio per farsi una erranza tragica.

C’è la tragedia in Pirandello.

C’è il dramma e l’ironia in Quasimodo.

Ma si separano ancora di più sulla visione del tempo, perché è il tempo, infatti, che stabilisce la misura tra la distanza, il distacco e la lontananza.

Quasimodo sembra voler fermare il tempo sul quadrante dell’orologio: “Ah gentile morte,/non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro…”.

Pirandello fa del tempo una metafisica.

In Quasimodo si articola il messaggio della ragione e della storia.

In Pirandello è il mistero che guida il senso degli orizzonti.

In Quasimodo c’è un addio: “Addio, cara, addio, mia dulcissima mater”.

In Pirandello c’è l’impossibile infinito e l’impossibile finito.

Una poesia che trascrive il sentire da una parte. Una poetica labirintica dall’altra. E l’assurdo della vita nella letteratura e della letteratura nell’esistenza sta in una contraddizione linguistica: il linguaggio come metafora del segreto e del chiaro che esce, zambraniamente, dal bosco.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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