La gabbia corpo-prigione e l’evoluzione della specie

La gabbia corpo-prigione e l'evoluzione della specie

La gabbia corpo-prigione e l’evoluzione della specie

Di Mary Blindflowers©

Una volta si scende, una volta si sale, credit Mary Blindflowers©

 

Il corpo diviso dall’anima, come se potesse avere un’esistenza separata, gabbia, prigione, sostanziale corruzione delle menti, demonio, tentatore, ricettacolo di mostri, di quel nero che è lato oscuro, dove avvengono pestifere trasformazioni chimico-fisiche, un dinamismo sporco rispetto all’ottica del punto fisso che la religione offre, relegando la presunta impurità del corpo al mondo da controllare attraverso l’ascetismo rigido-dogmatico della metafisica e di dio.

La separazione tra corpo e anima così forte nell’etica distorta dei grandi monoteismi, in realtà non ha nulla di originale. Infatti già Platone aveva le idee piuttosto chiare in proposito, e riprendendo il pensiero dei seguaci di Orfeo, scriveva nel Cratilo, 400 c.

 

Dicono alcuni che il corpo è séma (segno, tomba) dell’anima, quasi che ella vi sia sepolta durante la vita presente; e ancora, per il fatto che con esso l’anima semaínei (significa) ciò che semaíne (significhi), anche per questo è stato detto giustamente séma. Però mi sembra assai piú probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo; come a dire che l’anima paghi la pena delle colpe che deve pagare, e perciò abbia intorno a sé, affinché sózetai (si conservi, si salvi, sia custodita), questa cintura corporea a immagine di una prigione; e cosí il corpo, come il nome stesso significa, è séma (custodia) dell’anima finché essa non abbia pagato compiutamente ciò che deve pagare. Né c’è bisogno mutar niente, neppure una lettera1.

 

Questa concezione del corpo come tomba dell’anima, esasperata dal cristianesimo, è dunque di stampo pagano e segna un pericoloso discrimine tra mondo sensibile e sfera meta-sensibile, rovesciando l’assioma antico mens sana in corpore sano. Però mentre i pagani non sentirono particolarmente l’esigenza di punire il proprio corpo, lasciandolo nella sporcizia, i cristiani lo umiliarono fino alla crosta di sporco.

I greci e i latini concepivano il bagno come un momento rilassante e completamento dell’attività atletica. Con la caduta dell’impero romano e l’affermazione del cristianesimo, l’igiene passò di moda. Il cristianesimo condannò quei piaceri del corpo che nell’epoca antica venivano considerati normali. Il corpo viene sacrificato per l’anima. La chiesa tuona contro i bagni pubblici.

Il santo che l’agiografia descrive come olezzante profumi di paradiso, non aveva in realtà, alcuna cura del corpo, l’anacoreta medioevale indottrinato dal suo dio di pietra, lo fustigava, lo tormentava col cilicio, ne trascurava l’igiene perché il contatto con il proprio stesso corpo, anche solo per lavarlo, era percepito come peccaminoso. La medicina medioevale e ancora rinascimentale prescriveva durante le epidemie di peste o malaria di non lavarsi in nessun caso perché la crosta di sporco che si formava sulla pelle avrebbe garantito, secondo le concezioni dell’epoca, una protezione contro le infezioni. Lo sporco diventa così la crosta per salvarsi dal contagio del peccato e da quello delle malattie. La pulizia del corpo veniva avvertita come pericolosa sia moralmente che fisicamente. Lazzaro Meyssonier (1602-1672), medico, riteneva inopportuno nei tempi ordinari il cambio della biancheria e delle lenzuola, ma lo sconsigliava assolutamente durante le epidemie di peste. Nell’epoca attuale della pulizia attraverso la chimica, della gara tra detersivi più sbiancanti e nettanti, tra saponi più profumati e disinfettanti, sembra assurdo pensare che un medico potesse sconsigliare di lavarsi durante l’imperversare di un morbo, tuttavia era la prassi comune incoraggiata dalla Chiesa che così poteva conciliare profilassi terapeutica e salvezza dell’anima, nella più totale ignoranza e delle cause delle malattie e della fondamentalità dell’igiene. La peste infatti veniva concepita soprattutto come flagello voluto da dio, non si metteva in relazione con la scarsissima pulizia dell’epoca, anzi, lo sporco, l’escrementale, serviva a curare. Si beveva urina a scopo terapeutico, si facevano cataplasmi di sterco bovino per curare fratture, perfino brandelli di cadaveri rinsecchiti rientravano nella composizione dei medicamenta, con le conseguenze che possiamo soltanto immaginare.

Se nell’epoca cavalleresca ci si lavava un po’ di più, nel Cinquecento e nel Seicento, i medici frenarono l’uso dei bagni perché erano convinti che acqua e vapore spurgassero i pori della pelle lasciando entrare dentro il corpo l’aria infetta, visto che l’aria era ritenuta l’agente attraverso il quale si trasmettevano le malattie. Così ci si lavava “a secco” e i nobili si cospargevano di profumi sulla pelle sporca e gli abiti di broccato, mentre i poveri erano semplicemente sporchi in abiti di stracci.

Nell’epoca dei detersivi sbiancanti professionali, la medicina stercoraria e la prescrizione dello sporco come cura protettiva dalle malattie dell’anima e del corpo, sembrano certamente molto lontane, tuttavia dimostrano come l’evoluzione della nostra specie non segna un andamento lineare, ma sia fatta di passi in avanti, giri all’indietro, immobilismi, partenze improvvise, miti vecchi scalzati da quelli nuovi.

Si è passati dalla sporcizia all’eccesso di chimica, l’evoluzione è ancora lontana e non sempre coincide con il progresso tecnico-scientifico, specie se interviene un fenomeno di esasperazione. Nell’ottocento la chimica ha sostituto lo sterco e lo sporco monopolizzati dalle religioni, si è passati da un veleno naturale ad uno artificiale creato ad hoc dal nuovo dio di quelle che ormai chiamiamo multinazionali, il denaro. La chimica cura e uccide nello stesso tempo.

Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 213-214. 

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

 

 

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