Siamo al buio, ci salva il contro comune buon senso

Siamo al buio, ci salva il contro comune buon senso

Siamo al buio, ci salva il contro comune buon senso

Di Angelo Giubileo & Mary Blindflowers©

 

Lunghe strade, credit Mary Blindflowers©

Da dove derivano le mie visioni? E che cosa sono o piuttosto rappresentano? Cosa significa che destino in me “meraviglia” (in greco antico: thauma -atos, n.) o stupore piuttosto che “paura” o terrore di fronte all’essere?

Nella mitologia greca, Taumante ed Elettra generano le Arpie e Iride. Attraverso la narrazione che promana dai nostri progenitori delle più remote età, di cui parla Aristotele nella Metafisica, gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (Metaph. A 2, 982 b, trad. Giovanni Reale). Nel prosieguo del brano, il senso di meraviglia sembra rappresenti piuttosto la curiosità di conoscere, forse anche meglio di apprendere il significato delle cose. Ma, a me sembra che così siano stati fatti già troppi passi in avanti e molto si sia dato per acquisito. E invece non lo è. Affatto.

Nel momento in cui l’uomo ha deciso impunemente di abolire la sua meraviglia a favore del dogma, è morta la curiosità, è morta l’indagine e il desiderio di capire, a favore di ciò che dovrebbe già essere stato capito e accettato da altri.

Così è nata l’indiscutibilità, l’abolizione delle capacità critiche e soprattutto del movimento del pensiero a favore della staticità.

Nel Teeteto Platone, per bocca di Socrate, descrive il processo in maniera assai più dettagliata, e direi piuttosto puntuale. Innanzitutto, egli sostiene che tutti i filosofi, ad eccezione del solo Parmenide, affermino che tutte le cose, per ciò che sono o rappresentano anche a noi uomini, discendono dal flusso e dal moto. E quindi, brevemente, non si potrebbe dire alcunché di qualsiasi cosa se non in relazione a un’altra e questo in virtù di ciò che è il flusso e il moto di ciò che l’essere è o rappresenta. E come chiameremo il prodotto di tutto questo?

SOCRATE: cosa sono mai queste visioni che sono dentro di noi? (…) E considerando la prima di esse diremo, come io penso, che nessuna cosa mai diventa più grande né più piccola, né per volume né per numero, finché resta eguale a se stessa. Non è così?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Il secondo punto poi è il seguente, cioè che una cosa, a cui nulla viene aggiunto o tolto, non cresce mai e nemmeno decresce, ma resta sempre uguale.

TEETETO: è esattamente così.

SOCRATE: E il terzo punto è questo, che quel che non era prima è impossibile che sia poi senza il divenire.

TEETETO: Pare così. 

Riandando brevemente al termine greco thauma -atos, n. -, l’analisi dell’uso nei diversi testi dai quali proviene dimostra che possa trattarsi dell’oggetto dell’ammirazione, dell’ammirazione (stessa), ma anche di una marionetta, un gioco di prestigio e, tradotto nell’epoca cristiana successiva, un miracolo; da cui deriva anche l’interpretazione, parimenti coeva, del verbo con il significato di meravigliarsi, ammirare, onorare, venerare, tutte cose per le quali il cristiano necessita della presenza di Dio, del suo dio. Come dire che, dalla figura del filosofo platonico a quella del teologo medievale, il passo sia piuttosto lo stesso e fino a determinare che: philosophia ancilla theologiae (Gregorio IX).

Lo stop al movimento del pensiero, l’asservimento della filosofia alla teologia, hanno determinato una patologica involuzione della mente, una bacata regressione del ragionamento e della critica, con conseguenze nefaste per la cultura, un imbarbarimento di contenuti, un appiattimento di concetti, una sostanziale e temibile uniformità massificante di opinioni.

La massificazione delle coscienze, checché venga descritta come fenomeno della società contemporanea, è molto antica. Nasce nel momento stesso in cui il pensiero decide di asservirsi al dogma, e abortisce ogni sua possibilità di muoversi nel mondo liberamente.

Ma, sospendiamo, per un’importante parentesi, il ragionamento del Socrate di Platone e acquisiamo ora la testimonianza di chi, come Plutarco, può essere considerato forse il più illustre interprete della tradizione culturale greco-romana. Egli, nell’Adversus Colotem, così conclude: Poiché, prima ancora di Platone e di Socrate, egli (Parmenide) comprese che la natura possiede qualcosa di opinabile, ma possiede anche qualcosa di intellegibile e che ciò è oggetto di opinione è instabile ed errante in molte affezioni e mutamenti col suo diminuire e crescere, ed è differente per persone differenti e non provoca mai la stessa sensazione neppure per la stessa persona; mentre ciò che appartiene all’intellegibile è di un altro genere, essendo esso “tutto intero, immobile e ingenerato”, come egli stesso dice, e rimanendo esso identico a se stesso e fisso nell’essere. Colote, presentando calunniamente queste cose a partire dal modo di parlare e attaccando il discorso non nel merito, bensì nel modo di esprimersi, afferma senza motivo che Parmenide ha eliminato completamente tutte le cose, nella misura in cui ha supposto che l’essere sia uno. Ma Parmenide non abolisce nessuna delle due nature, bensì, attribuendo ad ognuna ciò che le è proprio, ha posto l’intellegibile nella forma dell’uno e di ciò che è e lo ha chiamato “ciò che è”, perché eterno e immobile, e “uno”, perché identico a se stesso e non ammette differenza; mentre ha posto il sensibile nella forma del disordinato e del mutevole.

Plutarco segue anch’egli il ragionamento così come impostato dal Socrate di Platone e, a tale proposito, ripetiamo brevemente: nessuna cosa mai diventa più grande né più piccola, né per volume né per numero, finché resta eguale a se stessa. Il secondo punto poi è il seguente: una cosa, a cui nulla viene aggiunto o tolto, non cresce mai e nemmeno decresce, ma resta sempre uguale.

Massimo Scaligero diceva che il processo filosofico è essenzialmente movimento del pensiero. Se l’uno, l’eterno, ciò che è e che non muta, non ammette differenza, l’uomo vive nella sfera del mutevole. Il suo pensiero si sviluppa in tale sfera, non nel mondo dell’ingenerato, perché l’uomo è un generato che partorisce idee nel momento in cui avverte l’opinabilità delle opinioni e la spinta verso la ricerca, che non può riferirsi all’uno immutabile ed intoccabile, non al cielo, di cui nulla sappiamo, ma alla terra che percepiamo e purtroppo, per nascondere la fragilità delle opinioni, abbiamo ricoperto di dogmi, tappezzandola come un pagliaccio vestito a festa. I dogmi impediscono la conoscenze. L’intoccabilità, in tutti i campi, genera mostri della ragione. L’accreditato diventa oro colato incontestabile, una poesia non si discute, se proviene da un poeta laureato; un dipinto non si spiega se realizzato da un artista accreditato; dio non si tocca, comanda e impera e i suoi referenti in terra fanno lo stesso, a imitazione di dio; personaggi arrivati al podio del successo tramite prebende e politica, sono sacri e qualunque cosa dicano è ben detta. Non importa ciò che si dice ma la bocca da cui proviene. Il credito universale è tutto, fa diventare le bugie vere, il teatro e l’opinione diventano realtà, abolendo per sempre la stupenda meraviglia della conoscenza.

Come si vive senza meraviglia e all’ombra del dogma che genera verità fittizie.

Siamo al buio, parliamo del numero e della “cosa” senza saper contare e discettiamo senza più meraviglia.

Innanzitutto, l’affermazione di “nessuna cosa”, ovvero “una cosa” significa già che abbiamo a che fare con un sistema di misurazione prima ancora che con un sistema di calcolo. In uno splendido saggio – di cui Einstein disse: questo è senza dubbio il libro più interessante sull’evoluzione della matematica che mi sia mai capitato fra le mani -, dal titolo in italiano Numero, Tobias Dantzig, allievo del più noto matematico e fisico Henry Poincaré, scrive che, per quanto strano possa sembrare, si può arrivare a un concetto logico e ben definito di numero senza introdurre l’artificio del contare.

 Ed ecco l’esempio classico, che egli immediatamente propone: Entriamo in una sala e supponiamo di trovarci in presenza di due insiemi: le sedie per gli spettatori e gli spettatori stessi. Senza contare, possiamo subito accertarci se i due insiemi sono uguali e, se non sono uguali, quale di essi è il maggiore. Noterete che il ragionamento che viene ora svolto risponde perfettamente ai canoni finora stabiliti, e in qualche modo quindi pre-stabiliti, nel primo e nel secondo punto del Socrate di Platone. E dunque proseguiamo: Infatti se tutte le sedie sono occupate e non vi è nessuno in piedi noi sappiamo senza contare che i due insiemi sono uguali. Se ogni sedia è occupata e c’è qualcuno in piedi, sappiamo senza contare che gli spettatori sono più delle sedie. Naturalmente, lo stesso accade se i due insiemi contengono un solo elemento che sia, nel caso in esame, una sedia e uno spettatore. Ed è qui che occorre rilevare la prima sostanziale differenza che può dividerci o separarci da ciò che chiamiamo comune buon senso, e che invece buono, nel senso di “vero”, non è affatto. Qual è l’esatto valore o misura di ciò che chiamiamo in questo caso, uno?

Dantzig ci conferma che fin qui abbiamo piuttosto a che fare con un procedimento di visualizzazione d’immagini (visioni) che attiene a ciò che egli chiama senso del numero. E che, appunto: Non bisogna confondere il senso del numero con il contare che probabilmente è venuto assai dopo e implica, come vedremo, un processo mentale piuttosto complicato.

Occorre pertanto fare un altro passo avanti nell’analisi della genesi del Numero, così che altrettanto utile è quest’altra riflessione che egli stesso avanza: L’uomo primitivo trova questi modelli (di insiemi) nel mondo che lo circonda: le ali di un uccello possono simbolizzare il numero 2 … Brevemente, ci sia concesso: le ali è ciò che in quanto soggetto chiamiamo “ali” in relazione a un’immagine (visione) che in noi suscita l’oggetto che osserviamo … di un uccello possono simbolizzare il numero 2 … Vale a dire che un uccello così come le due ali altro non sono che rappresentazioni o simboli di una o più visioni che noi riconduciamo al linguaggio delle parole (uccello, ali) e dei numeri (uno, due). Ma, continua Dantzig …, le foglie del trifoglio il numero 3, le zampe di un animale il 4, le dita della sua mano (ricordiamo: l’uomo primitivo) il 5. In molti linguaggi primitivi i vocaboli che distinguono i numeri recano tracce di questa loro origine. Naturalmente una volta che il vocabolo è creato e adottato diviene esso stesso un modello, come l’oggetto che originariamente rappresentava. La necessità di distinguere tra il nome dell’oggetto considerato e il simbolo del numero portò naturalmente a differenziare il suono delle due parole finché, con il passare degli anni, si è perduto perfino il ricordo del legame che le univa. 

Lo scavo verso la comprensione del ricordo, della genesi, dei meccanismo attraverso cui l’accertato o il modello o il classico o il poeta o l’artista, sono divenuti tali, a noi sembra che getti un po’ di luce nel mondo della ragione e un po’ di movimento nel mondo della staticità. Solo così la luce della mente potrà ri-diventare capace di cogliere il senso delle cose che eternamente cambiano. Dentro e fuori di noi stessi.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

 

Post a comment