Vis roboris presenta molte irregolarità

Vis roboris presenta molte irregolarità

Vis roboris presenta molte irregolarità

Di Angelo Giubileo©

Punto di origine, credit Mary Blindflowers©


Qualche tempo fa ho incontrato per via due amici che discutevano animatamente di presente, passato e futuro e in specie di ciò che testardamente chiamiamo con il termine “umano”. Non ho potuto fare a meno di propormi anch’io per la discussione e da lì è sorta una frequentazione e una collaborazione, che reputo felice.

Oggi, voglio dirvi di come un giorno si è sviluppato il tema principale della nostra discussione, allorquando R. convintamente ha affermato che per il presente anche prossimo, poco importano i risultati: l’essenza (fisica) sono i vagiti come quelli di ogni neonato… (homo sapiens o homme robot che sia…). M. immediatamente ha aggiunto che il senso comune non ci avrebbe fatto fare passi avanti nel ragionamento. Anzi, tutt’altro. Sarebbe invece servito superare la realtà, andare oltre con l’immaginario, in quanto i destrutturatori – così da lei, chiamati – non hanno re né regine, solo spine, arte, poesia, libri, solitudine e buona compagnia… Come spero, sopraggiunsi, consideriate la mia. E così, immediatamente, presi e riprendo ora a raccontarvi.

In latino, il termine vis, roboris, f. (la forza) è un sostantivo che presenta molte irregolarità. Tra le tante, una certamente evidente, e cioè il fatto che per il caso del dativo e in specie del genitivo singolari, il termine faccia eccezione e infatti deriva dal terminerobur, roboris, n. (quercia). Per antonomasia, la quercia è la pianta dotata di maggior forza.

Con il termine vis, gli antichi romani intendevano esprimere il concetto di forza non solo o non tanto fisica quanto piuttosto d’animo; distinguendo il termine vir dal termine homo. Ed è indubbio infatti che la radice di vis sia la stessa di vir. Anche gli antichi greci hanno usato per “uomo” due diversi termini quali aner e anthropos, ma in tal caso le declinazioni dei termini non riportano irregolarità come nel caso del termine latino vis, roboris.

Il mio pensiero è allora corso subito alla radice formalmente comune dei termini latino rob-ur e robot, il cui termine, si legge suwikipedia, è da intendersi come “pron. robòt o robó, all’inglese ròbot; dalla parola ceca robota che significa lavoro pesante, a propria volta derivata dall’antico slavo ecclesiastico rabota, servitù, raramente italianizzato in roboto (ròboto), è una qualsiasimacchina (più o meno antropomorfa) in grado di svolgere più o meno indipendentemente un lavoro al posto dell’uomo”.

E fu così che mi apparve il nodo gordiano dell’intera questione, e non dunque di ogni sua singola parte, così come formulata all’inizio. Allorquando, cioè, attraversando il  “mito” si rese manifesta la “struttura” del “tempo”. Alessandro, il Grande, insegna che, per ri-solvere la questione, occorre un “taglio” deciso: Portategli il discorso su argomenti, che richiedano acume e sottigliezza, vi saprà sciogliere il nodo gordiano di tutto, come la sua giarrettiera” (William ShakespeareEnrico V, Atto primo, scena prima, 45-47).

Un taglio dunque che, in qualche modo ancora qui a noi non chiaramente, metta in relazione l’uomo valoroso (vir) con la quercia (robur), e la quercia, in qualche modo a noi ancora piuttosto meno evidente, con una qualsiasi macchina (più o meno antropomorfa), in una sorta di prefigurata e rinnovata ipotesi antropocentrica; ipotesi che, tuttavia, si rivela, come vedremo, errata.

Concordammo brevemente, almeno così oggi ritengo, che occorresse uscire e andare oltre (trans) le logiche dell’antropocentrismo (l’umano punto di vista) e dell’antropomorfismo, abbandonando il senso comune, e ripercorrendo piuttosto la via antichissima, di cui venne comunque conservata traccia nell’opera “scientifica”, tra le più antiche, di Democrito, destrutturalista ante litteram, ma anche mentore della più antica “teoria dinamica degli atomi”. In breve: gli atomi possedevano il movimento come loro caratteristica intrinseca: essi infatti si muovevano eternamente e spontaneamente nel vuoto, incontrandosi e scontrandosi. Anche, una sorta di vitalismo della natura. Prima di tutti, del regno “materiale”. Ma, se ciò non dovesse convincerci, una caratteristica, prima ancora del regno “animale”, del regno “vegetale”. Nel quale regnava, per l’appunto sovrana, la quercia.

Nella foresta intricatissima di internet, è tuttavia possibile scorgere l’inizio di un’altra “via”: Con le mani legate dietro le spalle e un nodo scorsoio intorno alla gola, Pinocchio viene appeso al “grande ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande”. Il pino, l’albero della sua natura antica, poteva salvarlo, ma non permettergli di progredire. “Voglio andare avanti!” era però la sua determinazione. E per andare avanti ha bisogno di dar prova di grande forza: la forza della “Grande Quercia”. Questa è una morte iniziatica. I sacerdoti, iniziati druidi, erano i “figli della quercia”, investita dei privilegi della divinità suprema del cielo. Ancora: albero di Giove. Legno della clava di Ercole. Sinonimo di forza: spirituale e materiale. “Spirito” e “Materia” come il Principio-Padre: sapienza, forza e virilità. Come ben indicato nella lingua latina. Robur, roboris – Vis, roboris – Vis – Vir, stessa radice. Vir è uomo per eccellenza. L’uomo che vuol eccellere si impianta nella quercia. Così in Pinocchio (M. Carosi).

E tuttavia, siamo solo all’inizio di un percorso, che in realtà deve ancora proseguire a ritroso, in una sorta di “eterno ritorno” nietzscheano. Pinocchio, come Gesù, si impianta nella quercia; ma, com’è possibile, che invece quella stessa quercia debba essere, perché nei fatti è già stata, recisa? E cosa significa esattamente tutto questo?

Si dice che gli antichi grammatici congiungessero il termine latino robustus a robus, che sta per rosso ed è innanzitutto il colore del sangue, che dà la vita, e nella quercia il colore che appare nel fogliame e nelle venature del legno; secondo molti etimologisti moderni, il termine deriverebbe dal sanscrito ràbh-as, che sta per impeto o forza. Senza dilungarmi oltre, appare quindi chiaro che è di energia, della linfa vitale delle piante che dobbiamo ora discutere.

Finora, c’è una storia, ripetuta a diverse latitudini e longitudini, che precede in qualche modo tutte le storie dell’uomo. E’ la più nota storia di Gilgames, il cui nome contiene l’albero-mesu (cfr. G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi 2000, pp. 568-581). E’ la narrazione di un’epopea che concerne, potremmo dire, il destino di due “regni” terreni, e quindi due rispettivi “ordini” che, nel passato di ciò che ancora chiamiamo “umano”, si sono in parte contrapposti fino a quando l’uno ha preso il sopravvento sull’altro; che precedeva, ma la cui eco, il transito (andato oltre, p. pass.) che c’è stato, continua (continuum) in qualche modo ad anticipare oltre che il presente (che va oltre, p. pres.) anche il futuro; e questo, indifferentemente quale che siasarà, secondo rispettivamente l’“ordine” dello “spazio” o del “tempo”.

Non tanto brevemente, la storia racconta di Gilgames, re di Uruk, che gli dei “per due terzi fecero dio e per un terzo uomo” (L’epopea di Gilgames, Adelphi 2001, trad. A. Passi, p. 89). Il re, tuttavia, dominava la città con tracotanza (la hybris o forza prevaricatrice dell’intero “mondo” greco), al punto che gli dei, stanchi delle lamentele che provenivano dai sudditi, decisero di creare un suo pari capace di affrontarlo. La dea creò allora “il nobile” (vir) Enkidu. Un giorno, dopo aver incontrato un “cacciatore”, quest’ultimo riferì al proprio padre: “Padre, c’è un uomo, da ogni altro dissimile, che è sceso dalle colline: Egli è il più forte del mondo, è come un immortale del cielo. Vaga sulle colline con le bestie selvatiche e si nutre di erba; vaga per la tua terra e scende ai pozzi. Ho paura e non oso avvicinarmi a lui. Egli riempie le fosse che scavo e divelle le trappole che colloco per le mie prede; aiuta le bestie a fuggire e ora esse mi sfuggono tra le dita” (91). Così il cacciatore partì e andò dal re: Gilgames, dopo averlo ascoltato, gli suggerì di presentare a Enkidu “una prostituta”. “Per sei giorni e sette notti giacquero insieme, poiché Enkidu aveva scordato la sua dimora sulle colline; ma quando fu soddisfatto ritornò dalle bestie selvatiche. Allora, appena le gazzelle lo videro, balzarono via; fuggirono dal suo cospetto le creature selvatiche (…) Enkidu era diventato debole poiché la saggezza era in lui e i pensieri di un uomo stavano nel suo cuore (…) ella gli disse ‘Saggio sei, o Enkidu, ora sei divenuto come un dio. Perché vorresti scorazzare sulle colline assieme alle bestie? (…) Ti condurrò ad Uruk: colà vive Gilgames, colui che è fortissimo e spadroneggia sugli uomini qual toro selvaggio”. Persuaso dalla donna, Enkidu esclamò con gioia: (…) Lo sfiderò con audacia, a gran voce proclamerò in Uruk: ‘Sono io il più forte, sono venuto a mutare l’ordine antico, sono colui che nacque sulle colline, sono colui che è più forte di tutti’”. Eppure, Enkidu bramava ancora di scorazzare con le bestie sulle colline, invece dimangiare il pane e bere il vino forte che ella gli porgeva, sapeva solo suggere il latte degli animali selvatici. Fino a quando, “disse allora la donna: ‘Enkidu mangia il pane, è il bastone (n.d.r.: il nuovo albero) della vita; bevi il vino, è l’uso del paese’. Così mangiò finché non fu sazio e bevve vino forte, sette calici. Divenne allegro, il suo cuore esultò e il suo viso brillò. Lisciò i peli arruffati del suo corpo e si unse con olio. Enkidu era diventato un uomo; ma dopo che ebbe indossate le vesti di un uomo sembrava uno sposo: prese le armi per cacciare il leone …” (93-96). Enkidu giunse a Uruk e affrontò Gilgames, il quale pur vinse nello scontro, ma, quel che più conta per il prosieguo della storia, è che da quel giorno entrambi divennero amici, come fratelli, come i Gemelli dello Zodiaco che stanno all’inizio di ogni storia, umana e divina, o viceversa. Ed è così che finisce la prima parte dell’epopea.

La seconda parte riguarda il racconto del viaggio dei due amici nella “foresta”, detta anche “il Paese del Vivente (…) dove si abbatte il cedro”, retto da Humbaba che “non è come gli uomini soggetti a morte”. Facilitati in qualche modo dalla guida di Enkidu, i due eroi giungono alla “montagna” più alta, e qui, rivolgendosi a Gilgames, Enkidu prorompe: “Buono è il tuo sogno, eccellente è il tuo sogno, la montagna che vedesti è Humbaba (…) Quando furono scesi dalla montagna Gilgames prese la scure in mano, abbattè il cedro. Quando Humbaba udì il rumore da lontano ne fu infuriato; gridò: ‘Chi è costui che ha violato i miei boschi e tagliato il mio cedro?’. Ma Samas (il dio del sole mesopotamico) glorioso parlò loro dal cielo: ‘Avanti, non abbiate timore’” (108-109). E così, la storia continua fino allo scontro mortale con Humbaba, che soccombe. I due eroi “scoperchiarono le dimore sacre (…) e, mentre Gilgames abbatteva il primo degli alberi della foresta, Enkidu ne sgomberava le radici fino alle sponde dell’Eufrate (…) Quando vide la testa di Humbaba, Enlil (l’antico dio mesopotamico del vento, dell’aria, della terra e delle tempeste; Vrtra, il signore e mostro del “vuoto” vedico; Ba-al nella versione non originaria ma successiva del demonio, etc. etc.)s’infuriò con loro: ‘Perché avete fatto questo? D’ora innanzi vi sia il fuoco (Agni, il dio del fuoco vedico, da cui ar, la radice, l’ars dei latini, l’“impulso” plutarcheo che regola le “parti” dell’“intero” mondo) sui vostri volti, che esso divori il pane che mangiate, che esso beva là dove voi bevete” (114-115).

In breve, sulla ruota o cerchio del tempo dello Zodiaco, si attesta la successione del Vivente (prima di tutto, che è pianta, come “la Grande Quercia” che affonda le proprie radici nell’abisso – identificato da Esiodo con lo spazio originario e vuoto del Caos – ed estende le proprie foglie fino al cielo, dimora degli dei; animale, uomo o quant’altro che sia) dall’originario regno (ordine)naturale dei Pesci (Acqua) al regno – già artificiale (da ars, artis) – del Sagittario (Fuoco), metà corpo animale e metà cacciatore armato di arco e freccia, e da qui al regno postsocratico (nella Grecia antica, alla maniera inaugurata da Platone) non più “divino” ma “politico” già appartenuto alla Vergine-dea (Terra) e, in fine, ai Gemelli (Aria), dai quali prendono inizio tutte le storie degli uomini; e, all’inizio del nuovo giro del cerchio, le storie delle nuove divinità. Così che Crono-Saturno mangia sempre i suoi “figli”, ovvero le “cose” in trasformazione; viceversa assise, come qualsiasi dio trascendente, nello spazio di un eterno presente dell’essere, tutto intero, che: “è” (Parmenide).

Nella terza e quarta parte dell’epopea, la storia narra prima della morte di Enkidu e poi del tentativo vano di Gilgames di riportarlo indietro dall’oltretomba della morte. E tuttavia ancora, prima che sopraggiunga il proprio destino di morte e la fine della storia, Gilgames diviene depositario del “segreto”, di ciò che gli rivela Utnapistim, sopravvissuto al “diluvio”, detto anche Atrahasis o “colui che ha trovato la vita”: “è un mistero degli dei ciò che ti dirò. C’è una pianta che cresce sott’acqua, ha spine come il rovo, come la rosa; ferirà le tue mani, ma se riuscirai a prenderla, allora nelle tue mani ci sarà ciò che ridà a un uomo la gioventù perduta” (149). Nello spazio del passato presente e futuro, comunque quale che sia: homme, robot o altro.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

 

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